Finora nel Reggino i casi accertati sono nove, sette suini selvatici e due di allevamento. Il direttore della cooperativa Maiale nero d'Aspromonte: «Ci aspettiamo che la politica regionale batta un colpo. Occhiuto non ci ha nemmeno ricevuti» (ASCOLTA L'AUDIO)
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«C’è un unico modo per uscire da questa situazione: abbattere il maggior numero di cinghiali possibile fino a diminuire sensibilmente la popolazione libera nelle nostre montagne. Restiamo tutti con il fiato sospeso, in attesa di provvedimenti efficaci speriamo che l’infezione rallenti, ma personalmente non ho dubbi che altre zone della Calabria possano risultare presto contaminate se non si interviene immediatamente in maniera drastica». Franco Barretta è il direttore della cooperativa “Maiale nero d’Aspromonte”, la più colpita dall’esplosione del morbo della peste suina africana nella provincia di Reggio. Una trentina di soci, un fatturato in continua crescita e una fetta di mercato – quella legata ai prodotti di alta gamma (e alto prezzo) venduti sui mercati nazionali e internazionali – conquistata a suon di premi di qualità nelle esposizioni di mezzo Paese, che rischia di andare a gambe per aria.
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Sono nove finora gli animali su cui i veterinari dell’Asp hanno riscontrato infezioni di peste suina africana in provincia di Reggio: sette cinghiali, che del morbo sono i vettori principali, trovati morti nelle valli d’Aspromonte e due maiali d’allevamento, che hanno causato l’abbattimento preventivo di 130 capi in un’azienda zootecnica nel comune di Africo. Una situazione che rischia seriamente di mandare in crisi un settore economicamente importante che negli ultimi anni è riuscito a ritagliarsi un posto al sole sui mercati d’eccellenza. Un problema reale che, a distanza di un mese dall’ordinanza dell’Asp che aveva allargato la fascia di sorveglianza anche ai centri di Samo, San Luca, Casignana, Sant’Agata del Bianco, Ferruzzano, Bruzzano Zeffirio, Staiti, Bova, Roghudi, Roccaforte del Greco, Palizzi, Condofuri, San Lorenzo, Caraffa del Bianco e Brancaleone, è rimasto pressoché immutato. Pochi i controlli sul territorio alla ricerca di carcasse, scarse le indicazioni (e le disposizioni) per l’abbattimento dei cinghiali. Un sostanziale immobilismo (con annesso blocco delle vendite di prodotti lavorati fuori dalle zone rosse) che spaventa i piccoli produttori – le aziende zootecniche che si occupano di maiale nero sono tutte a carattere familiare – anche per il fatto che gli animali che rientrano nel disciplinare della coop, sono tutti allevati allo stato semibrado e quindi a serio rischio contatto con animali infetti.
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«Basta un solo caso verificato per portare all’abbattimento di tutti i capi presenti in quell’allevamento. Per adesso – dice ancora Barretta a LaC – abbiamo raccomandato ai nostri soci di sospendere il pascolo esterno delle bestie e di procedere con l’alimentazione a base di mangimi. Ma questa non può che essere una soluzione tampone. Servirebbe recintare con doppie reti gli allevamenti ma i costi per noi sarebbero insostenibili. Ci aspettiamo che la politica regionale batta un colpo: so che l’assessore Gallo è a conoscenza dell’evolversi della situazione, ma io ancora non ho visto nessuna delibera. Occhiuto invece, che è anche commissario regionale alla sanità, non ci ha nemmeno ricevuto».
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E se i risarcimenti per i capi abbattuti destinati agli allevatori (in soldoni poco meno di 2 euro al kg) sono lontani anni luce dai guadagni che la vendita del prodotto finito avrebbe garantito (prosciutto e culatello vengono piazzati sui mercati del “foodporn” anche a 90 euro al chilo), il vero danno economico consiste nell’impossibilità, per gli allevamenti risultati infetti, di rimettere immediatamente a regime gli allevamenti stessi. «Per come stanno le cose adesso, un allevamento colpito da Psa non può essere ripopolato prima di due anni – dice ancora Baretta – è questa la vera paura. Il danno economico sarebbe insostenibile, nessuno dei nostri soci può permettersi di stare fermo tutto questo tempo».