La ‘ndrangheta non dimentica. Questa è una certezza che la cronaca ci restituisce quotidianamente. E per un testimone di giustizia che ha collaborato in processi importanti contro la criminalità organizzata, vivere con la consapevolezza di essere nel mirino delle cosche non è semplice. E ne sa qualcosa Gaetano Caminiti, un imprenditore di 67 anni che per metà della sua vita è stato nel mirino della ‘ndrangheta. Intimidazioni, incendi, sparatorie, tentati omicidi. In oltre 30 anni di processi la sua vita non ha avuto pace e oggi, dopo pochi anni di quiete l’incubo riprende forma.

L’ennesima minaccia di morte, un messaggio neanche troppo velato e una pallottola hanno tolto nuovamente il sonno e la serenità precaria di un uomo che oggi si sente solo. Il 13 dicembre, una busta da lettera di colore rosso con quattro croci lasciata sull'auto approfittando di un parcheggio non videosorvegliato. È venerdì 13 e le date non sembrano mai essere lasciate al caso. All'interno della stessa un bigliettino bianco e la frase "Sei morto basta una di questa. Ti diamo in pasto ai maiali”. Un proiettile, l’ennesimo. E la vita torna ad essere un misto di ansia e paura.

La storia di Gaetano è lunga, complessa. Una montagna russa tra denunce e processi. Ma non ha mollato e dopo oltre 67 denunce che lo hanno portato ad essere un testimone di giustizia attendibile, adesso è nuovamente preoccupato.

La denuncia, l’ennesima è stata sporta ma dal 1994 in poi la sequela di azioni contro di lui sono state innumerevoli.

Scasso con furto, 6 auto danneggiate, incendiate e rubate, rapine, tentata estorsione, furto arredi e oltre 16 denunce per intimidazioni (lettere anonime, cartucce, telefonate di minacce, furti varie ecc.). E nello spazio di due giorni, tra il 31/12/2008 e 3/01/2009 due incendi alla sua attività. «Nel secondo, quello più tragico stava perdendo la vita mio figlio, il quale avvisato telefonicamente da una persona che ha visto il fuoco, è arrivato presso l’attività prima di me, per cercare di spegnere il fuoco». Per due volte è sopravvissuto a sparatorie mirate. Anche per questo quel messaggio, quel proiettile, quelle croci, oggi fanno così paura.

La sua storia la racconta come uno scorrere di processi e incartamenti giudiziari. Dalle sue denunce è scaturito il processo Azzardo dove sono state arrestate 3 persone, condannate in 1°grado, in Appello e Cassazione accusate di estorsione. Non si è fermato e ha collaborato nel processo Gambling, operazione Casco, operazione Las Vegas ed altre ancora. Eppure oggi si sente isolato. Per anni è stato sotto scorta ma ora le cose sono cambiate. Non è più convinto di aver fatto bene a denunciare perché «hanno sequestrato la mia vita per poco più di 12 anni, tra indagato e processi lunghi quando sarebbe bastato fare una semplice verifica sulla mia persona, processi con la conclusione “assolto perché il fatto non sussiste”».

«Ero solo a lottare contro la morte. Solo a lottare col fuoco, solo a incassare le minacce, solo a non piegarmi al racket, solo a raccogliere le lamiere annerite e irriconoscibili delle innumerevoli auto che mi hanno bruciato, solo a denunciare, solo a ricominciare. Solo a resistere. La solitudine a segnare i miei giorni di terrore, a scandire decisioni e scelte sempre laceranti, sull’orlo del possibile precipizio senza ritorno».

Una roulette russa a giocare con il destino sfidando la criminalità nella convinzione che quello astrapotere potesse essere fermato. «Dal 1993 a oggi hanno tentato di ammazzarmi per ben tre volte, ma non mi sono mai arreso: prima – nel 2000 – sotto casa – sono scappati con i fucili in mano perché qualcosa gli è andato storto (io l’ho saputo dopo parecchi mesi da una persona che era sul suo balcone di casa sotto la mia abitazione), poi – il 12 febbraio 2011, verso le 18,30 – sono stato affiancato mentre percorrevo la Statale 106 di ritorno da Reggio. Erano in due, su una moto, il volto coperto da caschi, e mi hanno scaricato addosso 5/6 colpi di pistola: uno solo mi ha preso di striscio al braccio, gli altri sono stati fermati dal montante d’acciaio della Smart, dai rilievi effettuati dai CC erano mirati tutti alla testa. Ultimo a settembre del 2013 ricevo una busta con circa 200 grammi di esplosivo».

Non è la paura che siamo soliti raccontare quella che si legge negli occhi di Gaetano mentre racconta e mostra la crudeltà che ha dovuto vivere. «Purtroppo mi devo guardare da tutto e da tutti. Sempre. Nella mia storia ci sono coinvolte troppe persone che vogliono farmela pagare cara. Non finirà mai. Ecco perché la tentazione di mollare tutto e andare via c’è sempre. Mai mi sono tolto il cappello con nessuno e forse per questo oggi mi ritrovo in queste condizioni. Sino ad oggi, non ho ricevuto mai un soldo. Per lo Stato sono un numero, non sono una persona. Tutto quello che ho, l’ho conquistato con la lotta, col sangue e con le notti insonni. Che continuano. Io sono sempre qui con l’incubo delle pallottole, del fuoco, della dinamite ogni giorno, ogni notte, ogni istante».

Il timore di chi ha messo in gioco la sua vita per la lotta alla ‘ndrangheta e che adesso, a distanza di 30 anni segnati da lotte dentro e fuori i tribunali, l’isolamento riesca a fare quello che non hanno fatto i proiettili e le fiamme.