Il ruolo del boss crotonese nell'inchiesta della Dda di Catanzaro, sostenuto anche dalla sua cerchia familiare. A cominciare dalla moglie (ASCOLTA L'AUDIO)
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Domenico "Mico" Megna è un boss storico della 'ndrangheta crotonese. Parliamo del capo del gruppo operante a Papanice, territorio in cui il Crimine si è insediato da anni. E Megna era uno di quei soggetti che cercava di operare facendo accrescere il prestigio dell'omonimo sodalizio mafioso. Per farlo, secondo la Dda di Catanzaro, si faceva aiutare anche dalla sua cerchia familiare. Due gli indagati più vicini a lui: Mario Megna e Santa Pace (la moglie). Il primo, a sentire i collaboratori di giustizia, è uno dei presunti vertici della cosca papaniciaria, «alla quale è formalmente affiliato» scrive il gip Antonio Battaglia, «fungendo da vero e proprio braccio destro di Domenico Megna».
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«Da quando è uscito Mico Megna, Mario Megna è il suo braccio destro - raccontava ai pm antimafia il pentito Francesco Oliverio - gli fa da autista e si occupa in prima persona della sicurezza e delle vicende di Mico Megna. Da quando mi risulta credo che abbia il grado di Vangelo all'interno della 'ndrangheta».
"Mico" Megna, esperto e scaltro, avrebbe notato dei movimenti sospetti nelle sue vicinanze. Così la Dda di Catanzaro evidenzia come per oltre tre giorni il boss crotonese non aveva pernottato a casa sua, «preoccupandosi, tuttavia, di lasciare parcheggiato l'auto sotto casa per non lasciare riferimenti circa la sua effettiva ubicazione». In un'intercettazione dice: «C'è un po di casino di legge e sono tre giorni che sto dormendo... e ora qua ho trovato...stanotte ho dormito da un'altra parte ora... stasera lascio la macchina sotto casa mia...»
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I magistrati antimafia di Catanzaro ritengono che un ruolo strategico lo abbia rivestito la moglie, Santa Pace, la figlia Rosa Megna e il nipote Pantaleone Megna. Nel caso in questione, le indagini avrebbero dimostrato l'estrema cautela "utilizzata da Domenico Megna che, all'indomani della sua scarcerazione" e in considerazione dell'omicidio di Salvatore Sarcone, «aveva poi assunto un atteggiamento quantomai cauto nelle modalità di gestione delle attività criminali del sodalizio, cercando di evitare il più possibile indesiderate attenzioni investigative. I carabinieri del Ros infatti hanno notato che Megna dimostrava una certa accortezza nell'utilizzare il cellulare (mai preso), non incontrava direttamente i vari sodali se non in rare occasioni e con grande cautela, verificava costantemente la presenza di forze dell'ordine, bonificare i locali frequentati per scoprire l'eventuale presenza di microspie e si sarebbe avvalso solo di pochi stretti collaboratori.
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Il ruolo della moglie viene valorizzato dagli inquirenti anche quando il boss è interessato a veicolare alcuni messaggi ai suoi sodali. «Digli di temporeggiare a loro, che gli faccio capire che quando esco se ne parla, glielo dici, mi ha detto Mico che lui perdona a tutti, certo, che però deve sapere pure, questo perché è stato...)».
Frasi che gli investigatori contestualizzano all'indomani delle fibrillazioni che si erano venute a creare dopo l'omicidio del figlio di Megna. In sostanza, il "capo società" temeva di essere intercettato («i telefonini li avevi nascosti?», chiese alla moglie il 14 dicembre del 2018), spiegava alla sua consorte di dare una somma di denaro a Mario Megna che a sua volta avrebbe dovuto darla a "Massimiliano Maida". Infine, le precauzioni. Come quella di bonificare la casa al fine di rilevare possibili "cimici" della polizia che, a suo dire, aveva posto in essere un'attenta azione di monitoraggio.