Il ragazzino venne sequestrato e torturato da una della gang di spacciatori che imperversava nel quartiere di Reggio Calabria. Ai carabinieri ha riferito in dettaglio violenze e pressioni psicologiche subite in quella notte infernale: «Il mio collo tra le lame di una cesoia». Le indagini partite dalla denuncia della madre (ASCOLTA L'AUDIO)
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Tredici anni un po’ randagi, modi da duro e aria di chi la strada la conosce, ma per gli investigatori che se lo trovano davanti «poco più di un bambino». Di quelli che i mostri li conoscono, li hanno visti in carne ed ossa e non solo nei videogame. Ed ha realmente corso il rischio di essere ucciso.
Quando uno dei ragazzini sequestrati e pestati da una delle gang che aveva monopolizzato lo spaccio a Sbarre si è presentato al comando dei carabinieri di Modena, erano passate settimane da quell’incubo. Giorni passati a nascondersi, a temere di essere sequestrato e picchiato nuovamente. «Se uscivo di casa – dice - lo facevo solo alla presenza di mia madre, unitamente alla quale avevamo deciso di andare a vivere fuori Reggio». Ed è la madre per prima a presentarsi al comando.
La disperata denuncia della madre
Angosciata ai militari racconta che il figlio è finito in un brutto giro, è stato sequestrato e picchiato, quindi costretto a lavorare per l’organizzazione per ripagare il debito, che quella stessa gente l’ha avvicinata per strada intimandole di non proferire parola su quanto accaduto.
«Nella migliore delle ipotesi continuerà ad essere utilizzato per compiere atti illeciti» dice ai militari «ma potrebbe essere in serio pericolo di vita». Per questo, spiega, ha deciso di denunciare. Ed è dalle sue rivelazioni che è partita l'inchiesta della procura antimafia di Reggio Calabria che ha portato all'arresto di 17 persone, tutte direttamente o indirettamente legate alle due bande che avevano trasformato Sbarre in territorio di caccia.
Cronaca di una vita di strada
Anche il ragazzino, convinto a parlare, alla fine non fa che confermare quello stato di terrore. Di fronte ai militari prima e al pm della procura dei minori poi, non nasconde nulla. Si racconta già abituato a fumare marijuana, già abituato alla strada e alla sua faccia peggiore. «Per potermi procurare lo stupefacente qualche volta ho spacciato, commesso piccoli furti e qualche danneggiamento a mezzo incendio». Oppure la rubava agli stessi spacciatori «che erano soliti nasconderla fuori dalla loro abitazione».
La scoperta del deposito di droga
È così che finisce per inciampare nel gruppo guidato dai Foti e Chillino. Per qualche tempo li ha osservati, quanto basta per capire dove nascondessero la droga. Una settimana dopo circa, è tornato nel rudere in cui la occultavano. Ha trovato un borsone e «all’interno vi erano dei panetti bianchi sigillati con del cellophane trasparente, presumo si trattasse di cocaina», poi «un sacco vuoto che originariamente conteneva cibo per cani, un ulteriore sacco contenente marijuana, saranno stati all'incirca tre o quattro chili». Troppa.
Insieme all’amico preferiscono prendere un’altra busta con una ventina di dosi, per fumare a scrocco per un po’. Peccato che si trattasse di cocaina, che lui e l’amico non sono abituati ad usare. Per questo decidono di rivenderla all’altra banda che aveva fatto di Sbarre la propria zona di spaccio, per poi tornare nuovamente nel rudere per cercare della marijuana.
«Trovavo un involucro in cellophane pensando che all'interno vi fosse altra sostanza stupefacente, ma purtroppo all'interno vi erano delle cartucce per pistola, cosa che mi ha lasciato subito pensare trattarsi di un avvertimento. Immediatamente mi accorgevo che tutta l'area era coperta da sistemi di videosorveglianza». È così che il ragazzo è stato individuato. Ed è partita la caccia. L’incontro con uno dei luogotenenti del gruppo però è del tutto casuale. «Anouar (Azzizi) improvvisamente mi levava il berretto che portavo in capo e diceva: "ah ora ho capito chi sei tu!", a quel punto mi afferrava per un braccio in maniera violenta dicendomi testualmente “vieni con me, non ti succede niente”».
La trappola
Lo ha portato al cospetto di uno dei boss del gruppo e insieme gli hanno teso una trappola. Volevano anche l’amico che con lui aveva sottratto loro la roba, per questo hanno simulato di offrir loro un lavoro. Da spacciatori e corrieri, ovviamente. «Andrea Foti mi dava appuntamento per il giono seguente alle ore 17:00, dandomi la somma di euro 100 e sostenendo trattarsi di un anticipo perché volevano lavorassi per loro» - mette a verbale. Ma era tutta una bugia, pericolosissima.
Il sequestro, le torture e le minacce
Ventiquattro ore dopo i due ragazzini vengono caricati in auto e portati in un’abitazione non distante. E lì, alla presenza di Chillino, inizia “l’interrogatorio” a base di schiaffi, pugni, calci, sevizie, minacce. Ha più di 60 anni Giuseppe Chillino, il padre di quello che gli investigatori identificano come capo dell’organizzazione. Ma non si fa scrupolo di maltrattare un ragazzino che potrebbe essere suo nipote. «Rivolgendosi ad Anouar testualmente riferiva: "Calateli nell'acido a tutti e due. Non voglio sapere più niente, ed ammazzateli a tutti e due". Nel contempo gli stessi mi spegnevano una sigaretta sul viso» racconta il ragazzino.
La notte cilena dei due ragazzini
E ai militari non risparmia dettagli sul pestaggio che ha subito. «Anouar e Gabriele iniziavano a picchiarmi dandomi pugni, calci schiaffi e quant'altro, fino a che è entrato nella stanza Chilino e tutti hanno iniziato a picchiarmi selvaggiamente tenendomi fermo su una poltrona» riferisce.
«Subito dopo mi facevano sedere su una sedia a rotelle legandomi le mani sui braccioli della sedia con un lenzuolo e legandomi il piede con una fascetta di ferro che provvedevano a stringere con un cacciavite fino a quando non si arrestavano a causa delle mie grida di dolore».
Tre uomini adulti contro un ragazzino di 13 anni, all’apparenza forse ancora più piccolo. Un bambino. Ma questo non li ha fermati. «Continuavano a picchiarmi e minacciarmi di morte: preciso che Chillino continuava a picchiarmi in maniera violenta con un pezzo di legno sulle gambe che Anouar mi teneva dritte». Anche l’amico, poco più grande del 13enne, era stato sottoposto al medesimo trattamento. Trascinato in un’altra stanza era «quasi privo di sensi, sia per la paura che perché i predetti soggetti hanno tentato di soffocarlo mediante un lenzuolo» racconta.
L’arrivo di Sarica
A interrompere il pestaggio, l’arrivo di Umberto Sarica, uomo dell’altra banda di Sbarre e parente dell’amico del 13enne. Per conto dell’altro gruppo si impegna a risarcire Chillino e soci della perdita per la coca rubata, ma inizialmente quella lamentata è di più di quella che i ragazzi dicono di aver sottratto e rivenduto. La discussione va avanti, Sarica porta via il parente e promette di tornare insieme a chi aveva comprato quelle dosi. Nel frattempo, per il 13enne l’incubo è proseguito.
Tre alternative per morire
«Oltre ad essere ancora picchiato venivo minacciato di morte mediante l'utilizzo di una pistola che era in possesso ad Anouar e che lo stesso posava sul tavolo unitamente a dei proiettili» racconta il 13enne ripercorrendo quelle ore in cui a sevizie e torture si sono aggiunte pressioni psicologiche inimmaginabili.
«Anouar a quel punto mi domandava di che morte volessi morire e, nello specifico, mi conduceva nel bagno spingendo la sedia a rotelle sulla quale ero legato, ove mi mostrava la vasca da bagno colma di una sostanza che non so ben definire, ma che presumo fosse acido a causa del malodore che emanava, dicendomi che mi avrebbe sciolto dentro; la terza alternativa era essere bruciato mediante l’utilizzo della benzina, che mi mostrava contenuta all'interno una bottiglia di plastica. lo dicevo che volevo tornare a casa, ma gli stessi mi riferivano che non sarei tornato a casa vivo».
«Il mio collo fra le lame di una cesoia»
È solo il ritorno di Sarica, insieme al padre Andrea ed al cugino Antonio a interrompere quella perversa, incomprensibile tortura. I tre uomini – racconta il tredicenne - «mi trovavano ancora legato sulla sedia a rotelle nel mentre Anouar mi appoggiava sul petto una grande cesoia, facendo sì che il mio collo rimanesse tra le lame della stessa, tanto che io temevo veramente di essere ucciso. Immediatamente Totò toglieva di mano la cesoia ad Anuar e mi slegava le gambe dicendomi di indossare le scarpe per andare via ma io, per il dolore causatomi dalle botte, non riuscivo nemmeno ad alzarmi».
Sequestro parte seconda
Per il ragazzo però è stata solo una tregua. Prima di essere liberato, il ragazzino è stato nuovamente portato al cospetto di Chillino, in una cantina non troppo lontana, dove ha passato ore legato e imbavagliato «fino a che Chillino entrava in loco con il suo cane riferendomi di stare tranquillo che non mi sarebbe successo niente, specificando altresì che grazie all'intervento di altre persone sarei stato libero». Di tornare a casa, ma non dai debiti con la banda, che a mo’ di risarcimento pretendeva che lavorasse per loro. «Mi diceva inoltre che il giorno seguente mi sarei dovuto far trovare, alle 14:30, seduto sulla panchina del "labirinto" ad attendere Anouar che mi avrebbe detto cosa fare. Lo stesso mi diceva che se avessi tardato anche di un minuto sarei stato ucciso, mostrandomi quest'ultima intimidazione facendo segno con la mano, come a voler dire che mi avrebbero sparato». Lui però non si è mai presentato.
Il testardo coraggio di una madre
Nascosto a casa, terrorizzato, si è rifiutato persino di farsi visitare da un medico. Per giorni, inutilmente la madre ha provato a convincerlo a chiedere aiuto. Lui, disperato, la pregava di tacere per paura di essere ucciso. In quelle tre-quattro ore di sequestro, racconta, mille volte ha pensato che potesse succedere davvero. Ma la donna non si è fatta convincere. Preoccupata si è presentata comunque ai militari, ha raccontato che il figlio era stato obbligato a spacciare da entrambi i gruppi sotto minaccia di morte, ma che lei si rifiutava di assistere impotente a quella discesa all’inferno. Alla fine anche il ragazzo si è convinto a parlare. E solo allora, per entrambi, l’incubo è finito.