Non trova fine la vicenda del giovane fotografo lametino vittima di lupara bianca i cui resti furono rinvenuti nel 2008. Condannato a trenta anni di carcere, il presunto mandante Cannizzaro ha presentato ricorso
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Con il deposito delle motivazioni della sentenza di condanna a carico di Gennaro Pulice, il collaboratore di giustizia che si è auto accusato di essere la mano che premette il grilletto della pistola che uccise Gennaro Ventura, sembrava essere stata scritta la parola fine su una vicenda di lupara bianca che aveva risucchiato nell’angoscia la famiglia del giovane fotografo lametino dal 1996.
Ma la fine giudiziaria di questa vicenda si allontana nuovamente con il ricorso avanzato dai legali di Antonio Domenico “Mimmo” Cannizzaro condannato in primo grado a trenta anni di carcere con l’accusa di essere il mandante dell’imboscata e dell’omicidio.
Ad indicare Cannizzaro come mandante e a dare un contributo determinante nel disegnare la cornice all’interno della quale inquadrare l’ambiente e le motivazioni in cui era nato l’omicidio era stato proprio Pulice preceduto da altre gole profonde.
Una persona schiva il fotografo Ventura, con un passato da carabiniere a Tivoli. E proprio in quegli anni avrebbe firmato la sua condanna a morte partecipando all’arresto per droga di un cugino di Cannizzaro.
Ventura venne contattato dallo stesso Pulice con la scusa di un servizio fotografico ad alcuni reperti archeologici rinvenuti in un casolare. Più tardi Pulice avrebbe confidato di non immaginare che il loro appuntamento sarebbe stato segnato dal professionista sulla sua agenda.
Ventura sarebbe stato ucciso subito, ha raccontato lo stesso pentito e il suo corpo poi occultato fino al ritrovamento fortuito dodici anni dopo.
Già il pentito Gianfranco Norberti nel 2011 aveva spiegato agli inquirenti il contesto in cui era maturato il delitto. Durante una cena, aveva detto, sarebbe stato lo stesso Pulice a parlargli di «screzi con un fotografo per questioni di droga dicendo che voleva farlo fuori».
Fu poi la volta del collaboratore Massimo di Stefano: «Nel ‘94/’95 i Torcasio mi avevano chiesto di portare da loro Gennaro Ventura facendomi capire che lo volevano ammazzare sia per fatti legati ad un’operazione di droga alla quale Ventura aveva partecipato mentre si trovava a Tivoli e che concerneva sostanza stupefacente gestita da gente dei Morabito/Pizzata e dei Cannizaro per mezzo di un loro parente a nome Rao, sia per fatti donne».
Poi, di nuovo, Pulice raccontando di quando Ventura, nella veste ancora di uomo dell’Arma, partecipò all’arresto di Raffaele Rao, cugino di Cannizzaro, spiegò che secondo Rao era sparita una parte della droga sequestrata e che sarebbe stata applicata a suo carico una procedura non corretta. Secondo Pulice, Rao «si sentiva di avere subito un abuso da parte di Ventura». «Mimmo Cannizzaro si segnò l’offesa – aggiunse – e colse il momento giusto per vendicarsi».
Il pentito Pietro Paolo Stranges nel 2014, si legge nelle carte della sentenza, offrì poi ulteriori dettagli, stavolta collocati temporalmente nel 2008, cioè quando le ossa vennero ritrovate in occasione della vendita del terreno. Stranges spiega che sarebbe stato lo stesso Cannizzaro ad ammettere di essere lo stratega dell’omicidio perché Ventura avrebbe mandato in galera il cugino che dietro le sbarre sarebbe «andato fuori di testa».
I resti del giovane lametino vennero ritrovati con ancora accanto l’attrezzatura da lavoro, il cellulare, la fede nuziale e altri oggetti personali. Visibile a chiare lettere sulla borsa da fotografo il suo nome. I funerali furono un bagno di folla.