La figlia del giudice afferma di aver finito parole, pazienza e speranza, stigmatizzando la scarsa celerità della magistratura nella ricerca della verità. Tutti i dubbi su una scelta che spacca ulteriormente il fronte dell’antimafia
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«Le parole sono finite. È finita la pazienza, è finito il tempo della speranza, il tempo della fiducia». Rosanna Scopelliti affida ad un lancio d’agenzia l’unica dichiarazione rilasciata ieri, in occasione del 32esimo anniversario dell’omicidio di suo padre, il giudice Antonino Scopelliti. Non è una sprovveduta, Rosanna. Nonostante la giovane età, ha alle spalle molte esperienze che le hanno permesso di sviluppare una coscienza critica in grado di prendere posizioni nient’affatto comode.
La sua scelta di rimanere in silenzio, quale segno di protesta per una verità che manca da più di sei lustri, è comprensibile e legittima. Anzi, tratteggia in modo ancor più marcato la maturità raggiunta, manifestando con il silenzio il profondo disappunto con cui convive ormai da tantissimo tempo. Un disappunto certamente sfociato in delusione, quando, per l’ennesima volta, ha visto evaporare quella pista che sembrava potesse condurre finalmente ad una verità giudiziaria. Tuttavia, quelle poche e pesate parole rischiano di trasformare il proposito del silenzio in uno strappo parecchio rumoroso che, per momento storico e contesto, finisce per mancare l’obiettivo per il quale è stato concepito e mettere in un teorico mirino le sagome sbagliate.
Rosanna Scopelliti chiede scusa a suo padre per non aver fatto abbastanza per la verità e per far sì che si comprendesse la necessità di avere risposte in tempi celeri da parte della magistratura. Qui, probabilmente, la delusione di figlia vince sulla razionalità della donna. Innanzitutto riteniamo di dover smentire Rosanna Scopelliti su un aspetto: non è vero che non ha fatto abbastanza. L’opera portata avanti con la Fondazione ha avuto il merito di perpetuare la memoria in modo sano, di far conoscere a tantissimi giovani la figura di un magistrato straordinario. Non tocca a Rosanna, né alla Fondazione, fare qualcosa affinché si arrivi alla verità. Ciò che si può fare è lavorare ogni giorno affinché il ricordo di Antonino Scopelliti sia vivo e sempre più presente nelle nuove generazioni.
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Chi la verità la deve cercare è certamente la magistratura. Ma Rosanna Scopelliti sa bene che tempi celeri e verità molto spesso (anzi, quasi sempre) non possono coincidere. Trentadue anni sono tantissimi. Per questo le sue rimostranze sono legittime. Parlare di scarsa celerità riferendosi – direttamente o meno – alla magistratura requirente reggina, pur essendo un punto di vista rispettabile non può però essere pienamente condivisibile.
In primo luogo, bisogna fare i conti con le verità giudiziarie accertate e passate in giudicato. Vi sono stati ben due processi con imputati “eccellenti” che, dopo una condanna in primo grado, hanno visto l’assoluzione in Appello poi confermata dalla Corte di Cassazione. Dunque, i pubblici ministeri reggini, nel ricercare la verità, devono tenere in debita considerazione come le persone già processate per questi fatti non possano più entrare nella vicenda riguardante Scopelliti perché assolte in via definitiva. Questo è un aspetto che può apparire secondario. In realtà non è così: considerato il contesto nel quale è maturato l’omicidio, trattasi di circostanza fondamentale.
Ciò posto, la delusione di Rosanna arriva, quasi certamente, dal nulla di fatto cui si è giunti nel nuovo filone investigativo che, qualche anno addietro, aveva portato a mettere sotto inchiesta 17 persone tra Calabria e Sicilia. Vi fu anche la notizia del ritrovamento della presunta arma del delitto grazie alle dichiarazioni di un collaboratore di giustizia, Maurizio Avola, che si autoaccusava del delitto. Una vera svolta, se solo le propalazioni del pentito avessero trovato riscontri adeguati. Avola, invece, non è stato ritenuto attendibile già dai magistrati siciliani che lo hanno più volte interrogato. Né gli accertamenti sull’arma fatta ritrovare hanno condotto, allo stato, a certezze in ordine all’impiego nell’azione di fuoco contro il giudice Scopelliti.
Cosa significa tutto questo? Che l’attività di riscontro alle dichiarazioni di Avola è stata seria e scrupolosa com’è giusto che sia. Non potrebbe essere diversamente, del resto, quando ad indagare ci sono un procuratore capo come Giovanni Bombardieri ed un aggiunto come Giuseppe Lombardo che ben difficilmente penserebbero di imbastire processi senza ritenere di avere in mano delle prove granitiche da offrire alla valutazione dei giudici. Non è un mistero come, per una Procura accorta, di fronte ad accuse per le quali non vi siano riscontri tali da poter reggere in giudizio, persino una eventuale archiviazione è certamente da preferire ad un processo che quasi certamente si sgretolerebbe in fase dibattimentale. Un’indagine archiviata, a fronte di elementi nuovi e seri, può essere sempre riaperta. Al contrario, un processo precario, terminato con inevitabili assoluzioni non consentirebbe più di approfondire le posizioni di coloro che sono stati processati. Oltre alla circostanza, per nulla trascurabile, che sottoporre a processo qualcuno, fossero anche boss certificati da precedenti sentenze, con la consapevolezza di non avere in mano prove sufficienti non è esercizio corretto della giurisdizione.
Inutile girarci attorno: dopo oltre 30 anni, per arrivare ad una verità occorre che vi sia qualcuno che racconti, con tanto di riscontri effettivi, come siano andate le cose. Quanto meno che fornisca uno spunto investigativo serio. Pensare e sperare che la sola attività d’indagine tradizionale, per quanto meticolosa, possa compiere il miracolo di addivenire ad una verità è probabilmente utopistico.
Siamo certi che, come noi, anche Rosanna Scopelliti pensi che la magistratura reggina abbia fatto tutto il possibile per arrivare alla verità sulla morte di suo padre. Una verità che è stata sempre molto difficile da scrivere per tante e diverse motivazioni che risiedono probabilmente in una genesi lontana nel tempo che affonda le radici in quel pomeriggio del 9 agosto di 32 anni fa, tra i tornanti che, dalla Costa Viola, si affacciano sulla vicina Sicilia, quasi abbracciandola. Un po’ come accade tra le mafie dirimpettaie che, più simili di quanto si possa pensare, finiscono per abbandonarsi ad un abbraccio mortale che odora del sangue delle tante vittime innocenti. Antonino Scopelliti è sicuramente tra quelle. Lo ha decretato la storia, senza attendere la necessità di una sentenza. Bastino le parole marchiate a fuoco di Giovanni Falcone.
Ecco perché non siamo d’accordo con Rosanna Scopelliti quando afferma che «ancora oggi si fa fatica a comprendere che il sacrificio di Antonino Scopelliti appartiene al Paese e non alla nostra famiglia». Arrendersi proprio adesso non può essere la soluzione. Soprattutto in un tempo che vede un inesorabile raffreddamento della coscienza collettiva antimafiosa. Se persino un’icona positiva come Rosanna sostiene di aver perso parole, pazienza e speranza, c’è da interrogarsi profondamente su cosa sia rimasto di quella “raggia” dell’antimafia che abbiamo imparato a conoscere proprio a partire dagli anni in cui veniva assassinato Antonino Scopelliti, giudice cui la storia ha assegnato di diritto un posto nel novero dei martiri antimafia. A prescindere da qualsiasi sentenza.