Arrivano i risultati della perizia disposta dalla Dda: condizioni strutturali pessime, arma in cattivo stato. Per l'esperto non si può stabilire se quella fatta ritrovare dal pentito Avola sia stata utilizzata per uccidere il magistrato. Anche le cartucce risultate completamente difformi da quelle rinvenute sul luogo del delitto. L'inchiesta conta 18 indagati fa boss siciliani e calabresi
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Troppo vecchia ed arrugginita quell’arma, per poter dire con certezza che sia stata quella utilizzata per uccidere il giudice Antonino Scopelliti. È quanto messo nero su bianco dal vice questore aggiunto Ferruccio Martucci, in merito all’incarico peritale avuto dalla Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria sul fucile e le cartucce fatte ritrovare dal pentito Maurizio Avola e indicate come quelle usate per compiere l’omicidio del magistrato di Campo Calabro, freddato il 9 agosto del 1991 mentre faceva rientro da Villa San Giovanni.
La notizia, rilanciata oggi su Gazzetta del Sud, rappresenta un punto a favore delle difese, nelle indagini che il procuratore aggiunto di Reggio Calabria, Giuseppe Lombardo, sta portando avanti per arrivare ad esecutori e mandanti dell’agguato che costò la vita al sostituto procuratore generale della Cassazione.
La perizia
Nessun esame scientifico, dunque, si può effettuare per poter effettuare quanto meno una comparazione e stabilire se l’arma sia quella che ha effettivamente sparato. Tuttavia, è stato individuato il numero di matricola del fucile calibro 12. Nulla da fare, invece, sulla eventualità di tracce biologiche: non ce ne sono né sul fucile né sulle borse (un borsone blu e due buste, una blu con la scritta “Mukuku casual wear” ed una grigia con scritto “Boutique Loris via R. Imbriani 137 – Catania”). Ancora, le cartucce ritrovate (50 di marca Fiocchi) e comparate con quelle rivenute sul cadavere e sugli indumenti del povero magistrato sono risultate completamente difformi. Ciò significa che non sono dello stesso tipo di quelle utilizzate per l’omicidio.
Le nuove indagini
Le investigazioni del procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo hanno subito un’accelerazione grazie alle dichiarazioni del pentito catanese Maurizio Avola che ha fatto ritrovare l’arma che, presumibilmente, uccise il giudice. Assunto, questo, confermato lo scorso anno dal procuratore della Repubblica di Reggio Calabria, Giovanni Bombardieri, ma oggi messo in discussione dalle risultanze della perizia.
Nel marzo scorso venne fuori la notizia dell’iscrizione sul registro degli indagati di 18 persone fra Calabria e Sicilia. Un lungo elenco di nomi di boss di Cosa nostra e ‘ndrangheta. Un nuovo elenco, dopo il precedente processo finito con una raffica di assoluzioni.
L’omicidio del giudice
È il 9 agosto del 1991, quando sulla strada di Piace di Villa San Giovanni il magistrato Antonino Scopelliti fa rientro a casa dopo una giornata trascorsa giù vicino al mare. I suoi pensieri sono tutti occupati da quei faldoni da cui quasi mai si separa: contengono nomi, dati e fatti del maxi processo contro Cosa Nostra. Lui, sostituto procuratore generale della Cassazione, ha un compito delicatissimo: completare l’opera iniziata da Giovani Falcone e Paolo Borsellino.Suggellare anche in ultimo grado quelle tesi accusatorie che stanno scrivendo la storia della lotta a Cosa Nostra. Un reggino, o meglio di Campo Calabro, che mette il sigillo alla più grande inchiesta della storia. Scopelliti non lo sa ma da tempo qualcuno lo sta seguendo. È diventato un obiettivo. E quella sera del 9 agosto ’91, due persone a bordo di una moto lo affiancano e aprono il fuoco. I colpi di fucili lo attingono mortalmente facendo finire fuori strada la sua auto. Tanto che quando sarà ritrovata, i primi soccorritori penseranno ad un incidente stradale. Ma no, il giudice Scopelliti non è stato vittima del fato. Né di una distrazione. I fori lasciati dal fucile sono ben visibili. È un omicidio.
L’arma ritrovata e le dichiarazioni
Poi nello scorso agosto, quasi a sorpresa, il procuratore capo di Reggio Calabria, Giovanni Bombardieri, svela un dettaglio: è stata ritrovata l’arma che ha ucciso il giudice. Non dice molto di più il magistrato, ma è già abbastanza per capire che si è sulla strada giusta per arrivare ad una svolta. A fare ritrovare il fucile è il pentito catanese Maurizio Avola, colui che di fatto ha permesso di riaprire le indagini. Le sue parole riguardano un summit tenutosi nella primavera del 1991 a Trapani, con protagonista Matteo Messina Denaro. Lì ci sarebbe stato il patto firmato da Cosa nostra e ‘ndrangheta per eliminare il procuratore generale. Un uomo che aveva detto chiaramente no a possibili avvicinamenti per aggiustare il processo.
Ed allora nella sera d’estate del 1991 a Piale vi sarebbe stato un commando composto sia da calabresi che da siciliani. Un gruppo di fuoco la cui arma principale sarebbe stata proprio il fucile calibro 12 ritrovato nelle campagne siciliane.
I nuovi indagati
Come detto sono diciotto le persone indagate dal procuratore Lombardo. Si tratta si sette siciliani: Matteo Messina Denaro, i catanesi Marcello D’Agata, Aldo Ercolano, Eugenio Galea, Vincenzo Salvatore Santapaola, Francesco Romeo e Maurizio Avola. E dieci calabresi: Giuseppe Piromalli, Giovanni e Pasquale Tegano, Antonino Pesce, Giorgio De Stefano, Giuseppe De Stefano, Vincenzo Zito, Pasquale e Vincenzo Bertuca, Santo Araniti e Gino Molinetti.
Inutile dire come si tratti di nomi di primissimo piano tanto di Cosa nostra quanto della ‘ndrangheta. Sulla sponda reggina spicca il nome di Giuseppe Piromalli, a testimonianza di quel ruolo rilevante da parte della cosca di Gioia Tauro, nei rapporti con Cosa nostra. Ma non mancano personaggi come Giovanni Tegano (boss sanguinario arrestato dopo lunga latitanza), Giorgio De Stefano, quest’ultimo già condannato in primo grado a vent’anni di reclusione per essere ritenuto al vertice della cupola degli invisibili, un grumo di potere massonico-mafioso che ha dominato Reggio Calabria per molti anni e Gino Molinetti detto "la belva", ritenuto dai magistrati uno dei killer più spietati della 'ndrangheta. Nei giorni successivi, vi è stata l’iscrizione anche di Giuseppe De Stefano, figlio del boss Paolo De Stefano, e riconosciuto capocrimine della città di Reggio Calabria. L’erede prediletto del padre Paolo, diventandone il successore dal punto di vista criminale.
Gli scenari
Che succederà, dunque, all’inchiesta dopo gli esiti della perizia? La Dda si fermerà a questi accertamenti o ne disporrà di nuovi? Quanto peserà l’esito di tali esami peritali sul prosieguo dell’indagine? Sono tutti interrogativi ai quali stanno già lavorando i magistrati titolari del fascicolo, perché la verità sulla morte del giudice Scopelliti è una priorità assoluta, non solo per rendere giustizia ad un magistrato integerrimo, ma soprattutto per capire sino in fondo le dinamiche criminali di quegli anni in cui la storia stragista di Calabria e Sicilia si saldò inesorabilmente.
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