Il 9 agosto 1991 il giudice venne ucciso a Piale di Villa San Giovanni. Doveva sostenere l’accusa nel maxiprocesso a Cosa Nostra. Tentarono di avvicinarlo, ma fu incorruttibile. Fu un passaggio cruciale nell’alleanza tra le mafie
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«Nei processi di proterva criminalità organizzata è inutile pretendere di trovare la prova della canna fumante, mentre indizi univoci e concordanti debbono essere equiparati alla priva rappresentativa. Queste sono le regole del sistema, ignorandole si premiano i furbi e il delitto perfetto».
È la primavera del 1991 quando il giudice Antonino Scopelliti pronuncia queste parole. È la sua ultima requisitoria da sostituto procuratore generale della Corte di Cassazione. Quelle espressioni sembrano essere profetiche, poiché sintetizzano al meglio 32 anni di indagini, processi, ripartenze e verità non ancora scritte.
Antonino Scopelliti, il giudice dei processi più delicati
Prima ancora di ricordare come sia morto il giudice Scopelliti e cosa sia avvenuto dopo il suo omicidio, proviamo a fare un passo indietro. Chi era il magistrato? Non certo uno qualunque. Tutti sanno che avrebbe dovuto sostenere l’accusa nel maxi processo a Cosa Nostra, giunto all’ultimo grado di giudizio, dove “ballavano” tantissimi ergastoli che avrebbero decretato, di fatto, la fine dell’organizzazione mafiosa siciliana così come era conosciuta sino a quel momento. Ma Antonino Scopelliti, giudice sin da quando aveva 24 anni, si era occupato, dopo essere arrivato in Cassazione, di alcuni tra i processi più delicati della storia italiana: quello per l’assassinio di Aldo Moro; quello per l’omicidio del giudice Vittorio Occorsio; quelli per il sequestro dell’Achille Lauro. Ed ancora: il processo per l’omicidio del magistrato Rocco Chinnici, per la strage di Piazza Fontana, per la strage di Piazza della Loggia, per la strage del rapido “Italicus” 904; i processi Sindona e Calvi. Un magistrato di livello eccelso, una garanzia assoluta per quel delicatissimo maxi processo che arrivava dalla Sicilia.
La morte a pochi chilometri da casa
Il 25 luglio del 1991 Scopelliti lascia Roma e si sposta verso la Calabria. La terra d’origine lo aspetta, come ogni estate, per offrirgli un po’ di refrigerio e meritato riposo dopo annate di fatiche giudiziarie. Quell’estate, però, Scopelliti sa bene di non poter riposare lungamente. Gli è stato già riferito che dovrà occuparsi del maxi processo a Cosa nostra. Per questo, a pochi giorni dal suo rientro in Calabria, le forze dell’ordine gli recapitano una mole enorme di documenti. La sua estate non sarà sotto l’ombrellone e con bagni al mare, ma sarà “condita” dalla necessità di leggere migliaia di pagine, per arrivare pronto all’appuntamento con il maxi processo.
Il 9 agosto di 32 anni fa, poco dopo le 17, Antonino Scopelliti decide che il tempo da dedicare al mare termina e, in perfetta solitudine, prende la sua auto risalendo dalla Costa Viola con destinazione Campo Calabro. Il clima è torrido. Non c’è alcuna corrente di maestrale e rendere più fresca l’aria. Eppure, è tempo di tornare alle carte. C’è da studiare senza l’aggravio della calura. Giunto a Piale di Villa San Giovanni, Antonino Scopelliti si accorge della presenza di due uomini a bordo di una motocicletta. Lo tengono d’occhio sapendo che passerà di lì. Il giudice scala la marcia, vuole dare slancio alla sua autovettura e così recuperare velocità. Non fa in tempo a lasciarsi dietro la moto. Il rumore sordo delle fucilate trapassa il silenzio dei tornanti e spezza la canicola d’agosto: i pallettoni lo raggiungono al collo ed al torace. Scopelliti perde il controllo della sua auto, sfonda un cancello e finisce in un vigneto. La moto, intanto, fa perdere le sue tracce tra le curve che guardano allo Stretto.
Il corpo del giudice viene ritrovato dalla polizia assieme ad una valigetta contenente le carte del maxi processo. In un primo tempo si pensa addirittura ad un incidente: forse un malore, una distrazione e via giù verso il vigneto. Ma appena si effettua un esame più accurato del cadavere, si scoprono i fori lasciati dai pallettoni che hanno dilaniato il corpo del povero magistrato.
La notizia sconquassa l’Italia intera. Sono passati 16 dall’unica occasione in cui un magistrato è stato ucciso in Calabria: era il 3 luglio 1975 e Francesco Ferlaino, avvocato generale della Corte d’Appello di Catanzaro, veniva assassinato a Nicastro, frazione di Lamezia Terme.
L’inesistente pista passionale e le dure parole di Giovanni Falcone
Nei primi giorni successivi all’omicidio Scopelliti, qualcuno inizia a far circolare la voce che il delitto non sia ascrivibile ad un movente mafioso, quanto, piuttosto, legato a ragioni passionali. Scopelliti è di certo un uomo affascinante e qualcuno presume di poter archiviare ben presto il caso, lontano da contesti più complessi. Ci pensa addirittura Giovanni Falcone in persona (con il quale Scopelliti lavora fianco a fianco, come ricordato dalla figlia Rosanna in una intervista di qualche anno fa) a rimettere le cose a posto. Il 17 agosto del 1991 scrive un intervento sul quotidiano La Stampa, delineando i contorni dell’omicidio Scopelliti: «Ma se, mettendo da parte per un momento l’emozione e lo sdegno per la feroce eliminazione di un galantuomo, si riflesse sul significato di questo ennesimo delitto di mafia, ci si accorge di una novità non da poco: per la prima volta è stato direttamente colpito il vertice della magistratura ordinaria, la Suprema Corte di Cassazione. Non è questa la sede per azzardare ipotesi, né si pretende di suggerire nulla agi investigatori: ma il dato di cui sopra è sicuramente di grande importanza e merita particolare attenzione. Non importa stabilire quale sia stata la causa scatenante dell’omicidio, ma è certo che è stato eliminato un magistrato chiave nella lotta alla mafia, uno dei più apprezzati collaboratori del procuratore generale della Corte di Cassazione, addetto alla trattazione di gran parte dei più difficili ricorsi riguardanti la criminalità organizzata». Falcone prosegue: «L’eliminazione di Scopelliti è avvenuta quando ormai la Suprema Corte di Cassazione era stata investita della trattazione del maxi processo alla mafia siciliana e ciò non può essere senza significato. Anche se, infatti, l’uccisione del magistrato non fosse stata direttamente collegata alla celebrazione del maxiprocesso davanti alla suprema Corte, non ne avrebbe comunque potuto prescindere nel senso che non poteva non essere evidente che l’uccisione avrebbe influenzato pesantemente il clima dello svolgimento del maxiprocesso in quella sede. E se tale ovvia previsione non ha fatto desistere dal delitto, ciò significa che il gesto, anche se non direttamente ordinato da “Cosa Nostra”, alla stessa non era sgradito». Secondo Falcone, il fatto che l’omicidio sia avvenuto in Calabria segna un «preoccupante salto di qualità che non potrà non influenzare il futuro della lotta alle organizzazioni mafiose calabresi e che, già da adesso, suona come un grave segnale di pericolo per tutti coloro che in quelle terre sono impegnati in questa, finora impari, battaglia. Se così è, e purtroppo ben pochi dubbi possono sussistere al riguardo, le conseguenze sono veramente gravi». Il giudice (che sarà assassinato dalla mafia nel maggio dell’anno successivo con la strage di Capaci) afferma come sia «difficilmente contestabile che le organizzazioni mafiose (Cosa Nostra siciliana e ‘Ndrangheta calabrese) probabilmente sono molto più collegate tra di loro di quanto si affermi ufficialmente e che le stesse non soltanto ben conoscono il funzionamento della macchina statale, ma non hanno esitazioni a colpire chicchessia, ove ne ritengano l’opportunità».
La rivendicazione della “Falange armata”
Sta di fatto che, pochi giorni dopo l’omicidio del giudice, arrivano quattro telefonate che rivendicano il delitto. Tutte portano la firma “Falange armata”, sigla che di lì a poco diventerà ben più rilevante per via delle rivendicazioni effettuate negli attentati ai carabinieri ed in occasione delle stragi continentali. La prima telefonata arriva alle 9.25 dell’11 agosto 1991 all’Ansa di Roma; la seconda alle 22.15 del 13 agosto sempre all’Ansa di Roma; la terza alle 12.55 del 18 agosto 1991 all’Ansa di Roma e la quarta alle 22.10 del 28 ottobre 1991 all’Ansa di Genova. La voce è quella di un uomo che rivendica la paternità dell’uccisione. Gli inquirenti dell’epoca, però, non danno alcuna credibilità alla pista filo terroristica, in quanto Falange Armata risulta priva di strutture operative e logistiche radicate sul territorio e viene individuato un unico membro in un telefonista finito poi assolto.
Omicidio come scambio di favore ‘Ndrangheta-Cosa Nostra
È la sentenza di primo grado del 16 luglio 1996 a parlare per la prima volta di scambio di favori tra ‘Ndrangheta e Cosa Nostra alla base dell’omicidio Scopelliti. Con quella decisione vengono condannati i boss di Cosa Nostra Salvatore Riina, Giuseppe Calò, Francesco Madonia, Bernardo Brusca, Giacomo Giuseppe Gambino, Giuseppe Lucchese, Pietro Aglieri, Salvatore Montalto, Salvatore Buscemi e Antonino Geraci. Sempre la Corte d’Assise di Reggio Calabria, il 18 dicembre 1998 condanna per il delitto Giuseppe Graviano, Filippo Graviano, Bernardo Provenzano, Raffaele Ganci, Giuseppe Farinella, Antonino Giuffré, Benedetto Santapaola. Secondo i giudici, sia in un processo che nell’altro, le dichiarazioni convergenti dei collaboratori di giustizia erano riuscite a far luce sul delitto, collocandolo come commissionato dalla “commissione provinciale palermitana”, tramite Santapaola alla consorteria ‘ndranghetistica dei De Stefano-Tegano, il quale aveva organizzato ed eseguito l’omicidio con propri sicari, non senza il preventivo “benestare” del clan locale dei Garonfolo. A giudizio della Corte d’assise reggina, dunque, la morte di Scopelliti «fu la diretta conseguenza della sua designazione quale rappresentante della Procura generale nel giudizio sui ricorsi inerenti il cosiddetto maxiprocesso e del suo rifiuto a prestare la collaborazione che gli era stata richiesta da Cosa Nostra». Sono numerosi collaboratori di giustizia ad affermarlo. Ma perché incaricare la ‘Ndrangheta? Per il ruolo rivestito da Cosa Nostra, e da Riina in particolare, nella sigla della pax mafiosa in riva allo Stretto. Un debito di riconoscenza che i calabresi non potevano non onorare. Una sinergia che proseguirà, nella prospettazione accusatoria, anche con la strategia stragista.
I rapporti Cosa Nostra-Ndrangheta nelle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia
Se Tommaso Buscetta ha spiegato come «una delle prime famiglie calabresi divenute mafiose era stata quella dei Piromalli», portando i giudici dell’assise a ritenere come «Giuseppe Piromalli fosse un uomo d’onore affiliato a Cosa Nostra», il pentito Gaetano Costa ha dichiarato che, nel giugno 1991, Giovanbattista Pullarà, uomo d’onore del mandamento di Villa Grazia, molto legato a Totò Riina, gli chiese di trovare un possibile contatto con il giudice Scopelliti allo scopo di ottenerne un aiuto per il maxi processo, riferendo di averlo indirizzato verso il boss Giuseppe Piromalli, al quale era intimamente legato. Costa ha chiarito di aver appreso poi dal Pullarà «che il giudice era stato raggiunto, ma si era mostrato sordo ad ogni richiesta di aiuto ed a quel punto la sua morte era diventata inevitabile».
Giovanni Brusca, invece, ha riferito come l’omicidio del giudice Scopelliti fosse stato «un gesto preventivo», posto in essere dopo aver tentato di agganciarlo e la sua uccisione sarebbe stata da monito ai suoi successori, rallentando il maxiprocesso.
Anche il pentito Giuseppe Di Giacomo ha parlato dei rapporti tra Cosa Nostra e ‘Ndrangheta, aggiungendo come vi fosse stata la richiesta dei siciliani alla ‘Ndrangheta di aderire alla strategia stragista. Quest’ultima era già andata incontro a Riina con l’uccisione di Scopelliti: «La ‘Ndrangheta fece un favore a Totò Riina per l’omicidio di Scopelliti, perché partecipò Riina in qualche modo ad offrire una pax».
Sulla sponda calabrese, d’interesse sono le rivelazioni di Pasquale Nucera, il quale ha riferito di un incontro a Villa San Giovanni con Leoluca Bagarella (che si faceva chiamare Santoro) il quale aveva parlato di un problema da risolvere relativo al maxiprocesso. A questo incontro Nucera non era stato presente, ma vi erano pezzi di massoneria. «È questo Santoro – ha riferito Nucera – esce sempre in qualche dichiarazione fatta da me, quando hanno deciso di eliminare il giudice Scopelliti… A Villa San Giovanni, i massoni, ‘Ndrangheta e massoneria, eccetera, ‘sto Santoro che è venuto all’epoca per sistemare ‘sta cosa con altri componenti calabresi». Alla riunione sarebbero stati presenti rappresentanti delle famiglie dei De Stefano, ma anche dei Molè e dei Piromalli.
La sentenza d’appello assolve tutti
Ma la ricostruzione dei giudici di primo grado viene smentita da quelli di Appello che assolvono gli imputati «per non aver commesso il fatto». Sebbene non vengano ritenute infondate le motivazioni nella parte in cui si fa riferimento ai collegamenti diretti tra le organizzazioni mafiose, i giudici di secondo grado non ritengono pienamente attendibili i collaboratori di giustizia, rilevando contraddizioni e facendo emergere l’impossibilità di giungere ad un grado di sicurezza «oltre ogni ragionevole dubbio» in ordine alla ricostruzione delle modalità con cui Cosa Nostra si sarebbe accordata con la ‘Ndrangheta. Inoltre, la causale dell’omicidio, secondo la Corte d’Assise d’Appello, non era funzionale all’interesse di Cosa Nostra al buon esito del maxiprocesso.
La riapertura delle indagini
Nel marzo del 2019 la Dda di Reggio Calabria conferma l’apertura di un fascicolo con 17 persone indagate per l’omicidio del giudice Scopelliti. Tra loro boss di primo calibro di Cosa Nostra (fra cui l’allora latitante Matteo Messina Denaro) e della ‘Ndrangheta. Tra le ragioni della riapertura le dichiarazioni del collaboratore di giustizia siciliano Maurizio Avola, il quale si autoaccusa del delitto, affermando di essere stato contattato da Aldo Ercolano e Marcello D’Agata cinque giorni prima della commissione del fatto e che nel 1991 vi era stato incontro a Trapani per discutere dell’omicidio Scopelliti, a cui erano presenti anche Matteo Messina DenAro e il padre. Avola aggiunge che «tutto ciò che succedeva doveva essere rivendicato “Falange armata”, anche se erano attentati che non facevamo noi altri, diciamo». Il pentito fa anche ritrovare un’arma che si pensa possa essere quella utilizzata per il delitto, ma i successivi esami balistici non confermano questa circostanza, così come le dichiarazioni di Avola risultano tutte da riscontrare, con un giudizio di inattendibilità espresso dagli stessi magistrati palermitani.
Nulla di fatto, dunque, sulla verità giudiziaria dell’omicidio Scopelliti. Tutto rimane fermo al palo in attesa che vi possano essere nuovi spunti investigativi. Sebbene la storia abbia già provveduto a scrivere l’unica verità possibile: Scopelliti fu ucciso in un agguato mafioso collegato, direttamente o indirettamente, al maxiprocesso, considerati i riflessi prodotti sullo stesso da un simile delitto.