Cinque colpi di pistola sparati da vicinissimo, tra le persone che affollano l’ingresso al seggio. Poi la fuga, volto incappucciato e arma in mano, fino all’utilitaria rubata qualche giorno prima ad Ardore che lo attendeva a motore acceso sul corso, neanche cento metri dalla piazza principale di Locri. Lo avevano studiato bene il piano per freddare Franco Fortugno, giustiziato a palazzo Nieddu del Rio durante le prime, storiche, primarie dell’Ulivo il 16 ottobre del 2005.

L'omicidio Fortugno

Un piano messo a punto in ogni dettaglio e portato a termine con freddezza, approfittando dello stupore e del panico diffuso che gli spari avrebbero provocato, per lasciare il luogo dell’agguato prima di ogni possibile reazione. Un blitz spietato che segnerà a lungo la storia politica calabrese. Vice presidente del Consiglio regionale, primario in aspettativa, pedigree democristiano: l’omicidio di Franco Fortugno si schianta  come un macigno sulle elezioni primarie che incoroneranno Prodi, segnando una frattura nella strategia mafiosa che da tempo, in Calabria, non attentava direttamente alle personalità istituzionali. Un omicidio così eclatante da provocare una forte reazione dal basso. Migliaia furono i partecipanti alla marcia in memoria di Fortugno. A Locri vennero da tutta Italia per manifestare dietro lo striscione di “ammazzateci tutti”, ennesima occasione mancata di quella stagione di rivalsa così potente ed effimera.

I primi arresti per quell’omicidio tremendo arrivano a pochi mesi dai fatti. Il 21 marzo del 2016, il primo giorno di primavera, i carabinieri arrestano nove persone gravitanti nell’orbita criminale dei Cordì, la famiglia di ‘ndrangheta che in paese, da quaranta anni, si contende il potere a pistolettate con quella dei Cataldo. Tra loro, il killer Salvatore Ritorto e Domenico Audino, l’uomo che guidò l’auto per fuggire. Passano pochi mesi e il 21 giugno, il cerchio della distrettuale antimafia dello Stretto si chiude anche sui mandanti: in manette, finiscono Alessandro e Giuseppe Marcianò, sono padre e figlio, il primo lavora come caposala all’ospedale di Locri.

Ad indirizzare le indagini, le fondamentali dichiarazioni di due collaboratori di giustizia. Uno di loro, l’allora ventottenne Bruno Piccolo, fu rinvenuto impiccato, a due anni dagli arresti, nella residenza abruzzese dove era stato trasferito per motivi di sicurezza. Era stato proprio Piccolo, prima del suo suicidio, a raccontare delle “riunioni” tenute al Rainbow, il bar a due passi dal vescovado che il ragazzo gestiva da tempo. Riunioni in cui si pianificò l’omicidio di Franco Fortugno. Ed era stato sempre Piccolo a mettere in guardia gli inquirenti sulla marea di dichiarazioni che sarebbero arrivate in sostegno degli imputati, tutti partecipi di un tentativo di costruzione di un alibi che causò una pioggia di condanne per falsa testimonianza.

Le condanne

Furono quattro gli ergastoli disposti dal tribunale di Locri (e poi confermati dalla Cassazione): fine pena mai per gli esecutori materiali Audino e Ritorto e per i Marcianò che dell’omicidio di Fortugno erano stati i mandanti. Grandi elettori di Mimmo Crea – primo dei non eletti alle regionali che avevano visto Fortugno campione di preferenze – i due Marcianò avevano agito come “risposta” alla debacle elettorale locrese del loro “cavallo”, con il duplice intento di riaffermare la loro influenza politico-criminale sul territorio, e per favorire lo stesso Crea (mai indagato per questo omicidio ma arrestato e condannato per associazione esterna in associazione mafiosa, pochi mesi dopo per lo scandalo di Onorata sanità) che sarebbe subentrato in Consiglio proprio in sostituzione di Fortugno.