Al centro una delle figure chiave della guerra di mafia nelle Preserre vibonesi, Giovanni Emmanuele, finito nella lista nera di Luni Mancuso “Scarpuni”. Il reggente del clan di Gerocarne non riusciva neppure a capire chi fosse Filippo, ucciso per errore il 25 ottobre 2012
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L’uomo chiave è Giovanni Emmanuele. Una “doppia” inserita per errore nelle trascrizioni dell’Ufficio anagrafe, ma la famiglia quella: gli Emanuele di Gerocarne, divenuti padroni delle Preserre quando, nel 2002, decapitarono il clan rivale dei Loielo di Soriano, trucidando in un agguato i fratelli Giuseppe e Vincenzo. Gli Emanuele li chiamano «’i Fujuti» (gli Scappati); la ragione era lo stesso Giovanni a spiegarla al suo compagno di cella, un uomo di peso del clan Bonavota: quando i suoi avi entrarono in guerra con i Vallelunga tra Mongiana, Fabrizia e Guardavalle, dovettero ripiegare dalle Serre alle Preserre, in particolare a Gerocarne, dove crearono una nuova colonia. È l’uomo chiave, Emmanuele, perché gli inquirenti lo considerano non solo l’armiere ed uno degli uomini d’azione più pericolosi del suo gruppo, ma soprattutto perché fu l’agguato fallito ai suoi danni, risalente all’1 aprile 2012 a riaccendere la faida coi Loielo sopitasi col duplice omicidio di dieci anni prima.
La lunga scia di sangue
L’attuale procuratore di Vibo Valentia Camillo Falvo, quand’era pm antimafia di Catanzaro, ed i carabinieri del comando provinciale riuscirono ad intercettarlo in carcere, nell’auspicio di far luce sulla lunga scia di sangue che, proprio dopo il mancato assassinio di Emmanuele, terrorizzò le Preserre vibonesi: 2 giugno 2012, l’omicidio di Nicola Rimedio a Sorianello; 22 settembre 2012, l’omicidio di Antonino Zupo a Gerocarne; 25 settembre 2012, l’omicidio di Domenico Ciconte a Sorianello; 25 ottobre 2012, l’omicidio di Filippo Ceravolo a Pizzoni, vittima innocente, mentre i killer volevano colpire Domenico Tassone; 12 aprile 2013, l’omicidio di Salvatore Lazzaro; 21 luglio 2014, il tentato omicidio di Valerio Loielo, a Gerocarne; 22 ottobre 2015, il tentativo di omicidio di Antonino Loielo, della compagna incinta Sofia Alessandria, del figlio Alex e delle due figlie minorenni, le sole a restare illese, a Gerocarne; il 5 novembre 2012 il tentativo di omicidio di Walter Loielo e dei cugini Rinaldo e Valerio, a Gerocarne.
Una taglia sulla testa
Che Giovanni Emmanuele fosse una figura cruciale negli assetti criminali delle Preserre, lo sostenevano non solo gli investigatori dell’antimafia che gli stavano addosso, ma anche i rivali e, in particolare, chi al tempo era il grande regista delle trame criminali sottese ai sanguinari regolamenti di conti che scossero il vibonese: Pantaleone Mancuso detto Scarpuni, oggi ergastolano per mafia ed omicidio. L’11 ottobre 2016, il compagno di cella leggeva il giornale ed Emmanuele commentava. L’oggetto della conversazione, Scarpuni appunto: «A me gli dava 50.000 euro… 40.000 euro per ammazzarmi… Vedete quanto valgo… Un altro gli passava armi… Tutti i soldi per le armi… Per venire ad ammazzarmi». Il codetenuto: «Perché ce l’aveva con voi?». La replica: «Dice che comandavo io al mio paese…». Insomma, secondo queste intercettazioni –assorbite nell’articolata inchiesta Maestrale-Cartagho e acquisite in un diverso procedimento – su Emmanuele, Mancuso avrebbe messo addirittura una taglia.
La cimice in cella
Egli era dentro per una condanna definitiva a 4 anni e 8 mesi di reclusione rimediata all’epilogo del processo scaturito dall’indagine della Squadra mobile di Vibo Valentia denominata Calibro 12. Quando i carabinieri di Soriano, il 3 ottobre 2016, eseguirono l’ordine di carcerazione, lo condussero in una cella particolare, le stessa – si legge negli atti acquisiti in Maestrale Cartagho – dove il Nucleo investigativo dell’Arma aveva già intercettato un rampollo del clan rivale, Valerio Loielo. In pratica, il pm Falvo una microspia installata l’aveva già, bastava solo chiedere al gip di riattivarla. E così è stato. E quelle intercettazioni diedero risultati molto interessanti. Appena cinque giorni dopo l’arrivo in carcere, Emmanuele aveva già preso confidenza col coinquilino, parlando apertamente di uno degli episodi più tragici della guerra di mafia ancora impunita: l’agguato del 25 ottobre 2012, quando un commando rivale tentò di ammazzare suo cugino Domenico Tassone, ma spezzò la vita di un innocente, Filippo Ceravolo, diciannove anni appena.
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«Sei pallini in testa»
Lo dice chiaramente, Giovanni Emmanuele: il vero bersaglio era il suo congiunto e Filippo Ceravolo, inizialmente, neppure aveva capito chi fosse. «Mi chiama alle 10.30 (le 22.30, ndr), mi dice “dove sei?”… “Ti hanno colpito?” Dice “A me no, a quello in macchina sì”…. “E chi è quello in macchina?” “Filippo, dice, il figlio di coso, di Martino”. “Ma chi cazzo è questo figlio di Martino?”… Non mi veniva in mente…». Giovanni Emmanuele riferiva così alcuni particolari appresi proprio da Domenico Tassone, in ordine all’esecuzione dell’agguato: «Hanno sparato da dietro in parole povere. A lui l’hanno sparato in curva, una curva a gomito di sopra, c’era la strada di sotto, lo sparano di qua e a lui non l’hanno preso per niente, hanno preso il cofano dietro… Dal cofano dietro ha preso a quello qua dietro qui… E gli hanno trovato sei pallini in testa… Sei ce l’aveva in testa… Sei ce l’aveva in testa…».