«Io credo nella giustizia divina. Dio giudicherà e punirà chi ha ucciso mio figlio. Ma io voglio giustizia anche su questa terra, secondo la legge. La pretendo, perché finora mio figlio non ha avuto giustizia». Il presunto assassino scarcerato e accompagnato agli arresti domiciliari, a tre anni dell’omicidio. Il dolore della madre della vittima sempre vivo, che si traduce in rabbia, frustrazione, indignazione. Maria D’Angelo, madre di Salvatore Battaglia, ferito mortalmente a colpi di pistola nella notte tra il 27 e il 28 settembre 2019, a Piscopio, mostra con coraggio alle telecamere un viso solcato da lacrime intrise di angoscia. «Finché non tornerà in galera, finché non pagherà con il carcere a vita – dice – io non avrò pace».

L'omicidio di Salvatore Battaglia

Di pace, in verità, da quella notte, Maria non ne ha mai avuta. Salvatore aveva 21 anni, era un «gran lavoratore ed era amato da tutti», racconta. Ma Piscopio è un paese difficile e non tutti i ragazzi che frequentava avevano la testa sulle spalle. Quella sera era con Giovanni Zuliani in auto, parcheggiato ad un passo dalla villetta comunale. Improvviso l’arrivo del sicario, che i carabinieri identificheranno subito in Antonio Felice, allora 33enne. Armato di pistola, sparò. Zuliani ferito alle gambe, Battaglia al collo ed un proiettile gli recise un’arteria. Le indagini non hanno mai chiarito, stante il clima di diffusa omertà che soffoca il paese, la natura del movente: forse una vendetta, in seguito ad una provocazione, forse un agguato per sancire una sorta di egemonia territoriale, così come ipotizzato dalla Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro. Non è chiaro neppure chi fosse stato il reale bersaglio. Felice, arrestato dopo due mesi di latitanza in una villetta di Seveso, in Brianza, è figlio di un pezzo grosso della mala locale, anche alcuni parenti dei due ragazzi bersaglio della sparatoria sono considerati elementi di spicco della criminalità.

«Era un gran lavoratore»

«Mio figlio, però - spiega la madre di Salvatore Battaglia – con tutto questo non aveva niente a che fare. Non era tagliato per studiare e così, sin da quando era adolescente, mio marito lo mandò a lavorare, perché non doveva stare in mezzo alla strada. E lui si mise subito sotto. A sedici anni era in un autolavaggio, sotto il sole cocente o al gelo. Poi iniziò a lavorare in laboratorio che produceva cornetti. Si alzava prima dell’alba e si dava da fare. Alla fine trovò la sua strada. Un giorno mi disse “Mamma, voglio fare il pasticcere” e si mise sotto ad imparare il mestiere». Non si può morire a 21 anni, decisamente no.

Gli organi di Salvatore

Maria ricorda lucidamente ogni momento di quella notte. «Non gli raccomandammo altro “non fare tardi, torna a casa”». Poi la notizia della sparatoria, la corsa in piazza. I lampeggianti, la corsa in ospedale, il trasferimento a Catanzaro per un intervento chirurgico disperato. «Presi la sua mano, la baciai, la lasciai andare, piangevo, non dava segni di vita. I medici mi dissero che avevano il dovere di provare a tenerlo in vita, ma se fosse sopravvissuto sarebbe rimasto un vegetale che respirava. Gridavo “No, no, non è possibile”». Rimasero solo le macchine a tenerlo in vita. Il momento più difficile, il più buio, quando le dissero che bisognava staccarle. «”No, no, no”, piangevo e imploravo di non farlo, ma non potevano fare altrimenti. Mi dissero che avevamo sei ore di tempo per decidere se donare gli organi ed io dissi subito di sì. La dottoressa “Signora, avete sei ore, ci pensi su”. Anche mio marito “Pensiamoci ancora”. Ma io dissi subito di sì, non dovevo aspettare niente. Così la dottoressa si alzò, mi abbracciò e mi disse “Signora, è la prima volta che qualcuno a questa domanda risponde subito sì”». Una parte di Salvatore, così, continuerà a vivere in altre persone, che grazie ai suoi organi avranno una vita migliore o, comunque, potranno vivere.

«Voglio giustizia»

Ma Salvatore non c’è più, spirato a 21 anni. «Coloro che uccidono sono bestie, animali. Tutti quelli che uccidono un’altra persona. Penso a quella sera. Io ho perso un figlio, per un balordo che si è messo a sparare in mezzo alla gente. Poteva morire chiunque» . E poi: «Non ci siamo costituiti parte civile al processo – dice Maria – Perché? Perché nessun risarcimento vale la vita di un figlio. Solo per questo. Ma ciò non mi impedisce di chiedere giustizia per mio figlio. Non vendetta, mai vendetta. Ma giustizia, giustizia secondo la legge. E giustizia mio figlio non ne ha, visto che il suo assassino può tornare a vivere tra i suoi affetti, anche se agli arresti domiciliari. Può stare con i suoi figli, può stare con la sua famiglia. Io mio figlio invece non ce l’ho più».