La Corte d'Appello di Catanzaro ha ribaltato la sentenza di primo grado emessa dal tribunale di Cosenza, condividendo le richieste della procura generale e della parte civile
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La Corte d'Appello di Catanzaro ha riformato la sentenza emessa dal tribunale di Cosenza nel 2021, secondo cui l'imputato. Giovanni Magliocchi, doveva essere assolto dall'accusa di estorsione, nell'ambito di una vicenda lavorativa, che poi ha assunto contorni giudiziari, che riguardava una sua dipendente.
Assolto nel giudizio di primo grado
Secondo il tribunale di Cosenza, la parte offesa durante l'esame dibattimentale aveva riferito «di non aver subito delle minacce di licenziamento ma solo che Magliocchi le aveva prospettato che, nel caso in cui non avesse restituito metà dello stipendio, avrebbe potuto dimettersi». Ciò dunque non integrava secondo il giudice di merito di primo grado la condotta delittuosa contestata dalla procura di Cosenza, in quanto la prospettazione compiuta dal datore di lavoro alla dipendente di piegarsi al dovere di riversamento in suo favore di parte dello stipendio pena «la possibilità per la stessa di dimettersi» e non invece espressamente «di licenziarla» non avrebbe compromesso in alcun modo la libertà di autodeterminazione della persona offesa in quanto «assume più la connotazione di una vertenza civilistica sulla congruità della retribuzione» ed ancora «la scelta di dare le dimissioni è rimessa» alla volontà della dipendente «e non risulta esser dipesa da una minaccia del datore di lavoro».
L'impugnazione della parte civile
La parte civile, rappresentata dagli avvocati Gianpiero Calabrese, Valentina Moretti e Marco Caraffa, ha sostenuto anche nel giudizio di secondo grado che l'esistenza del requisito dell'ingiustizia del danno subita dalla persona offesa che hanno difeso in udienza, doveva individuarsi proprio nella restituzione in contanti al datore di lavoro di gran parte del corrispettivo salariale versato mensilmente in busta paga all'ex dipendente per l'attività lavorativa svolta.
Le contestazioni della procura
Così infatti era stato formulato il capo d'imputazione, secondo cui l'imputato, «mediante la minaccia di licenziamento, avrebbe costretto la persona offesa ad accettare un compenso mensile pari a poco più di 500 euro inferiore a quello indicato nella busta paga e regolarmente accreditato alla dipendente, facendosi consegnare dalla stessa in contanti la differenza tra la somma bonificata i circa 500 euro trattenuti dalla lavoratrice», procurandosi il datore di lavoro, secondo la procura, «un ingiusto profitto di 9.300 euro».
Al termine del processo di secondo grado, il collegio giudicante presieduto dal presidente Alessandro Bravin, ha condannato Giovanni Magliocchi a 3 anni e 5 mesi di reclusione oltre al risarcimento del danno in favore della parte civile costituita da liquidarsi in sede civile.