Quarta Repubblica, il programma di Nicola Porro su Retequattro ha toccato un tema molto spinoso. L’utilizzo delle leggi per contrastare la mafia, in Italia ma soprattutto al Sud, a volte produce fenomeni che poco si conciliano con uno Stato democratico. Effetti collaterali di una sacrosanta battaglia, si dirà. Ma il tema merita una riflessione dalla quale la politica spesso rifugge. Lo grida, quasi, Mario Oliverio quando in studio racconta la vicenda giudiziaria che lo ha colpito da presidente della Regione.

Alle 7,20 del mattino del 17 dicembre del 2018 gli uomini della Guardia di Finanza gli notificano l'obbligo di dimora a San Giovanni in Fiore per un abuso d’ufficio relativo alla gara d'appalto per gli impianti di Lorica. Tutti ricordano la foto di Cotticelli che appena insediatosi come commissario alla Sanità viene immortalato nel tinello di casa Oliverio. Come sia finita la vicenda è noto: dopo tre mesi la Cassazione parla di accusa “abnorme” e di “chiaro pregiudizio accusatorio”, il presidente viene rinviato a giudizio e il pm chiede 4 anni e 8 mesi. Oliverio sceglie l’abbreviato e viene assolto. Lui dice che non poteva essere diversamente per il semplice fatto che quella gara d’appalto non l’aveva fatta lui. All’epoca non era presidente. Stesso esito, assoluzione, in un altro processo per peculato che recentemente è arrivato a sentenza.

Il problema vero è che nel frattempo si sono consumati passaggi politici; non solo il cambio di maggioranza alla Regione, ma soprattutto l'isolamento politico di Oliverio a partire dal suo partito. «È un rapporto di subalternità quello fra la politica e la magistratura, un rapporto malato», dice Oliverio che a un certo punto parla apertamente di «un clima di paura, che è gravissimo per un Paese democratico». Intanto Piero Sansonetti, direttore de Il Riformista, è scatenato. Si agita sulla sedia e continua a gridare: «Chi era il pm? Chi era il pm?». Domanda retorica la sua, perché il riferimento al procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri è più che esplicito.

A dargli manforte c’è il collega Alessandro Barbano, autore del libro “L’Inganno”, cita i numeri dell’inchiesta di Platì con 225 indagati e otto condannati. Il finale scivola quindi verso la commedia dell’arte mentre Oliverio pone una questione seria ovvero che inchieste roboanti ma mal costruite rischiano di minare la credibilità stessa della lotta alla mafia. Sul punto interviene Vittorio Sgarbi che cita Mancini, Principe, Oliverio, se stesso e la Maiolo. «Ci sono passati tutti è impossibile fare politica in Calabria senza essere indagati, spesso in maniera ridicola. Mi chiedo perché alcuni magistrati anziché contrastare chi sventra il paesaggio perdano tempo con certe sciocchezze». Sciocchezze che però lasciano conseguenze.