La monumentale inchiesta sulla criminalità organizzata nel Vibonese è solo una delle operazioni investigative del magistrato di Gerace che andrà a guidare la Procura di Napoli. Le sue indagini hanno sondato tutti i territori calabresi
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La malapianta, ossia la ‘ndrangheta, non potrà dire di essere riuscito a estirparla del tutto, ma sfrondarla in abbondanza, questo sì: nessuno può negare che Nicola Gratteri - scelto dal Csm per guidare la Procura di Napoli - sia riuscito in questa impresa. Le tante operazioni antimafia a sua firma, eseguite in sette anni e mezzo di permanenza alla guida della Procura di Catanzaro, lo dimostrano non solo in termini di numeri e statistiche. In tal senso, non c’è solo “Rinascita Scott”, gli esempi si sprecano. A rendere meritoria la sua opera non è stato solo il fatto di aver assicurato alla giustizia boss e picciotti più o meno conclamati ma di essere riuscito a fotografare in tempo reale, con le indagini del suo ufficio, l’evoluzione del fenomeno ‘ndranghetista da Cosenza a Crotone, passando per Vibo, Catanzaro e Lamezia.
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Ha svelato i segreti della nuova ‘ndrangheta
L’inchiesta “Stige”, tanto per dire una, ha acceso i riflettori sulle ramificazioni extraregionali della cosca Farao-Marincola di Cirò Marina; con “Reset” a Cosenza si è arrestata la crescita di organizzazioni criminali – addirittura sette - che avevano stretto la città e la sua area urbana nella morsa di usura e racket. E se “Petrolmafie” a Vibo ha stroncato la nuova frontiera del business criminale legato agli idrocarburi, con “Gentlemen II” si documenta la crescita, per certi versi sorprendente e quasi inattesa, di una cosca Forastefano capace di stringere rapporti con i più importanti cartelli del narcotraffico mondiale. Insomma, anche grazie a lui e al suo ufficio, oggi ne sappiamo molto di più.
Il dito sul ventre molle della Calabria
Nel corso degli anni, però, sono cambiati anche i rapporti tra la ‘ndrangheta e categorie sensibili e fra le più esposte come politica e imprenditoria. Anche in questo caso, la “sua” Dda è stata sul pezzo. Diverse indagini - “Farmabusiness” e “Basso profilo” in primis - hanno messo a nudo una delle tecniche più ricorrenti con cui, ormai, i clan si infiltrano nella vita pubblica: niente minacce, lusinghe o scambi di voti, gli è sufficiente individuare, fra i tanti, il politico che più di altri fa al caso loro. Lo scelgono poiché debole, avido, incline ai compromessi, interessato agli affari più che a legiferare. Profondi conoscitori della natura umana, i boss lo utilizzano per curare i loro interessi, spesso a sua stessa insaputa. È il ventre molle della società che abbiamo costruito. E l’uomo di Gerace ci ha messo il dito di sopra, premendo con forza.
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E i buoni dove sono?
La fitta l’abbiamo avvertita tutti. Del resto, nessuno ha mai pensato che la sua fosse una cura indolore. È stata semmai una terapia d’urto. Le inchieste in cui risultano coinvolti dei politici ricordano per certi versi alcune fiction tv come “Gomorra”: spicca l’assenza dei buoni. Ciò che traspare da quelle indagini, e in particolare dalle intercettazioni, è molti degli episodi poi sfociati in presunte corruzioni, voti di scambio e altro, si sarebbero potuti evitare se solo qualcuno – dai partiti, dai dirigenti pubblici, ancor più dall’opposizione – si fosse messo di traverso. In Calabria, però, questo non accade quasi mai. E allora non resta che attendere Gratteri.
Voglia di Restaurazione
È anche la crisi di rappresentanza uno dei motivi per cui, in questo settennato, una larga fetta dell’opinione pubblica calabrese lo ha preso a modello di riferimento, arrivando a considerarlo l’unico in grado di risolvere i problemi atavici di questa terra. «Lo dico a Gratteri» è stato, non a caso, il ritornello della gente umile, dei vessati da burocrazia e quotidianità, delle vittime di torti e ingiustizie e poi la parte minoritaria degli scontenti a prescindere, dei giustizialisti più accaniti. Non sono mancate le voci contro. E anche su quel versante, al garantismo autentico di intellettuali e gente comune si è sommato quello pigro e interessato di chi invocando diritti, garanzie e normalità, coltivava ben altro desiderio: quello di Restaurazione.
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L’eredità
E ora che il momento è arrivato, ora che se ne va per davvero, cosa rimane di questi sette anni e mezzo “emergenziali”? Mille e più intuizioni investigative, anzitutto. Una fra le tante: aver aperto una breccia sui misteri fin qui impenetrabili della Sila, terra contesa tra il crimine cosentino e quello crotonese, crocevia di latitanti e affari illeciti, territorio dalle infinite potenzialità produttive e turistiche sfruttate, però, solo in minima parte, forse proprio per garantire l’altra destinazione d’uso. Una traccia che in futuro avrà certamente degli sviluppi. E poi una sfida alla politica, lanciata con l’inchiesta “Glicine”, che sempre attraverso le intercettazioni documenta il malvezzo di una certa politica nel dispensare incarichi ed elargire finanziamenti in modo arbitrario e a scopi elettorali. La tesi proposta da Gratteri e dai suoi pm è deflagrante: quella dell’associazione a delinquere. Saranno i Tribunali a stabilire se dietro quei fatti si celino o meno dei reati, ma è a tutti i politici calabresi - garantisti e non - che spetta il compito più impegnativo. Rassegnarsi a questo andazzo, difenderlo come al solito o, piuttosto, decidere che è arrivato il momento di cambiare registro, una volta per tutte. A conti fatti, è questo forse il lascito più importante di Nicola Gratteri: averci aiutato a sperare in un futuro, ancora molto lontano, in cui non ci sia più bisogno di lui.