Tina che è sempre alla testa dei cortei contro la mafia, Tina che non ha paura di fare nomi che a Palermo, ma non solo, fanno tremare i polsi a molti. Tina che sfida spavalda la mafia che le ha tolto tutto, gridandole in faccia «non ci avete fatto niente» è memoria che cammina, è testimonianza per chi c’era, nella terribile stagione delle stragi, e monito per chi era troppo giovane, per chi non era nato quando un gruppo di donne e uomini di Stato sollevarono la coscienza civile di una nazione addormentata.

E perché nessuno dimentichi porta in giro la Quarto Savona 15, l’automobile blindata che cinquecento chili di tritolo hanno ridotto a un ammasso di lamiere il 23 maggio 1992, allo svincolo per Capaci, Palermo. Quello è il simbolo, è il segno, che puoi guardare da vicino e toccare, di quello che trentuno anni fa è successo in Italia.

È la macchina, ora davanti all’Altare della Patria a Roma, in cui il marito ventinovenne , Antonio Montinario, ha trovato la morte insieme agli altri agenti della scorta di Giovanni Falcone, Vito Schifani e Rocco Dicillo, quel marito coraggioso di cui furono ritrovate solo le dita incrociate, perché «in macchina con il giudice Falcone lui le teneva sempre così», il marito di cui è ancora moglie, guai a chiamarla vedova. Non puoi essere vedova di un uomo che ti riempie ancora la vita, di un marito con cui parli tutti giorni, come racconta sempre lei.

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Oggi i figli di Tina sono più grandi di quel padre morto a ventinove anni, li ha cresciuti da sola, nel ricordo di Antonio, nel ricordo di quelli che anche oggi chiama “i nostri ragazzi”.

«Hanno dato la vita per lo Stato, avevano fatto un giuramento e non hanno fatto un passo indietro» dice fiera «Questi ragazzi devono essere un esempio per le nuove generazioni, erano loro stessi dei ragazzi, Antonio aveva ventinove anni, Vito ventisette, Rocco trenta, eppure avevano già deciso da che parte stare».

È questo lo scopo che ha guidato la vita di Tina Montinaro da quel giorno del 1992, l’esempio. Perché Antonio, come Vito e Rocco, come il giudice Falcone, non siano morti invano.

«Il messaggio ai giovani è la cosa più importante, perché per gli adulti c’è poco da fare se certe cose le hanno radicate dentro. È ai ragazzi che bisogna rivolgersi, sono loro che devono farsi delle domande, devono chiedersi perché nel nostro paese sono successe determinate cose, proprio perché quelle cose non accadano mai più».

Per i ragazzi ha scritto un libro sulla cui copertina c’è lei in una versione a fumetti, i riccioli rossi riconoscibili, e Antonio accanto, evanescente ma presente, a farle da guida mentre racconta la sua storia. Il titolo è il mantra di Tina, la sua sfida, da trentuno anni, alla mafia: "Non ci avete fatto niente".

«Pensavano di terrorizzare tutta Palermo, che non avremmo avuto la capacità di rialzarci e riappropriarci dei territori. Ma noi abbiamo fatto in modo che i nostri fossero sempre ricordati e sono trentuno anni che questi ragazzi hanno fatto cambiare tante persone, le nuove generazioni sanno chi sono. Noi siamo andati avanti, a me il sorriso non l’hanno tolto, i miei figli sono cresciuti, ho una splendida famiglia. Quindi che ci hanno fatto? Sono loro a doversi vergognare, i loro figli si devono vergognare, non certo noi. Noi abbiamo vinto, a noi non ci hanno fatto niente».