Michele Iannello e Francesco Mesiano, alle 22.30 del 29 settembre 1994, sulla Salerno-Reggio, nell’abitacolo di quella Fiat Uno scassata, forse non erano soli. Gli inquirenti azzardarono, a suo tempo, fossero in «tre», o addirittura in «quattro». Mentre Mesiano guidava e Iannello scatenava con la sua micidiale Taurus calibro 9 la pioggia di fuoco contro la Y10 sulla quale viaggiava la famiglia Green, Margaret Sherrard Young, la madre di Nicholas, scorse «due, forse tre uomini». E poi ci sono le intercettazioni e i verbali che raccontano di Iannello entrato in azione assieme a più «teste storti».

Una storia anche giudiziaria

La storia di Nicholas sconvolse il mondo. La storia di Nicholas cambiò il mondo. E la donazione degli organi del bambino atrocemente assassinato 25 anni fa contribuì a diffondere la cultura della donazione e dei trapianti e da allora a salvare centinaia di migliaia di vite nel mondo. Il caso Green è però anche una vicenda giudiziaria di straordinaria importanza, scritta in migliaia di pagine ingiallite del tempo e forse mai dovutamente studiate dopo la chiusura del processo.

I due assassini - Iannello e Mesiano - assolti con formula piena in primo grado, furono condannati dalla Corte d’assise d’appello di Catanzaro, che scrisse pagine durissime, valorizzando il compendio probatorio che fu acquisito dalla Procura di Vibo Valentia grazie ad un gruppo di investigatori che fu guidato personalmente da una leggenda della polizia italiana, Antonio Manganelli.

Una sentenza impeccabile

I due assassini si proclamarono sempre innocenti, ma la sentenza d’appello che censurò severamente l’atteggiamento ipergarantista della Corte di primo grado, risalente al 5 giugno 1998, fu solidissima e il 13 aprile del 1999 divenne definitiva dopo il vaglio della Cassazione. Iannello e Mesiano tentarono di ottenere una revisione, ma vanamente. Iannello, collaboratore di giustizia che ha confessato una miriade di fatti di sangue ma non il delitto Green, ventilò sin dall’avvio della sua detenzione l’ipotesi di uno scambio di persona: sarebbe stato suo fratello a sparare, non lui. Ma il pentito, credibile su tutto ma non sul delitto più infame imputatogli nel corso della sua carriera criminale, rimase incastrato nelle incongruenze e contraddizioni del suo racconto.

 

La sentenza, scritta in maniera impeccabile dalla Corte d’assise d’appello presieduta da Vincenzo Luzza, riconobbe di fatto come gli inquirenti, all’epoca, condussero un lavoro straordinario, più che sufficiente ad inchiodare i due killer ma non a chiarire se oggi vi sia o meno un terzo assassino di Nicholas che non abbia mai pagato. Eppure, un nome, sul taccuino degli inquirenti c’era. E affiora e riaffiora negli atti. Come si ripetono quelli di pezzi da novanta della malavita di San Giovanni di Mileto, che sapevano, che raccontavano. E i poliziotti di allora ascoltavano. Le indagini, incassato l’arresto di Iannello e Mesiano, su di essi però si fermarono e non svilupparono la pista del terzo e, addirittura, del possibile quarto uomo.

Il portavalori, la «favola di un drogato»

Dal carteggio relativo al delitto Green, emerge un altro dettaglio ignorato dalla storia: non esisteva alcun portavalori da assaltare. È scritto nelle carte giudiziarie e la storia è giusto che sappia: «Il tragico di questa vicenda è che il gravissimo atto banditesco prende l’abbrivo da una burla. Questi banditi sono convinti di dover assaltare un’autovettura carica di oro». Ma era la «favola» di un «drogato» che «millanta credito» e «ricchezza» e che si offriva alla malavita di Mileto come il portavalori da rapinare in cambio di qualche dose. Si legge nella sentenza: «E sulla base di tale millanteria si innesca nel cervello di questi banditi quel meccanismo che porta all’assalto dell’autovettura dei malcapitati Green e nell’uccisione del loro figliolo».