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«L’ho capito solo molto tempo dopo. Io sono stato usato. Lo scopo di quelle azioni era terroristico». Fa ancora fatica a metabolizzare ciò che è realmente accaduto, il pentito Consolato Villani, che nella giornata di oggi ha deposto davanti alla Corte d’Assise di Reggio Calabria nel processo “’Ndrangheta stragista”, che vede sul banco degli imputati Rocco Santo Filippone e Giuseppe Graviano, quali presunti mandanti degli attentati ai carabinieri fra il 1993 e il 1994.
Le rivendicazioni da fare
La deposizione di Villani si apre con i riferimenti alle rivendicazioni che Calabrò gli chiese di fare subito dopo l’omicidio dei carabinieri Fava e Garofalo. «Mi disse che avrei dovuto fare una rivendicazione con ulteriori minacce, dicendo che quello era solo l’inizio e che sarebbero stati massacrati». Ma perché fare quella rivendicazione: «Era un attacco terroristico, una minaccia allo Stato. Calabrò mi diede il numero da chiamare e le parole da dire. Lui mi parlava di una sigla, che avrebbero dovuto fare delle minacce tipo quelle delle Falangi armate».
Francesco Calabrò sapeva tutto
Il racconto di Villani si staglia su un particolare di non poco conto. Dopo il secondo fatto di sangue, lui, Giuseppe e Francesco Calabrò si ritrovarono a casa di questi ultimi, in contrada Saracinello, per brindare per quanto avvenuto. «Fu in quel momento che Francesco seppe quello che avevamo fatto». Francesco è il fratello di Giuseppe. Lo hanno ritrovato molti anni dopo, in fondo al mare, al porto di Reggio Calabria, probabilmente ucciso da qualcuno che gli ha voluto tappare la bocca. O almeno questa era la certezza che avevano i familiari di Calabrò, tanto che il padre, Giacomo Santo, si recò proprio da Villani a chiedergli di fargli riavere almeno il corpo del figlio. A raccontarlo è lo stesso pentito, che spiega come l’uomo fosse quasi certo che Francesco non si fosse ucciso, come invece lascerebbe credere la depressione di cui soffriva nell’ultimo periodo prima della scomparsa. «Avevo tante ragioni per volerlo uccidere», confessa Villani, riferendosi alla vendetta che covava nei confronti di Giuseppe Calabrò, per averlo coinvolto in quei fatti, nella sua collaborazione con la giustizia.
L’errore del fucile e la resa
Ma come si arriva al pentimento di Calabrò? Dopo il terzo attentato, racconta Villani, arrivò anche l’esercito e cominciarono dei rastrellamenti in tutta la zona. «Calabrò aveva nascosto le armi vicino casa sua e un ex appartenente alle forze dell’ordine lo vide e fece la segnalazione. Furono trovate le armi che ricondussero subito la questione alla famiglia Calabrò. Come ritorsione, lo stesso Calabrò prese il fucile del fratello e andò davanti alla finestra della camera da letto di quell’uomo e scaricò un caricatore. Fece una leggerezza a prendere il fucile del fratello, tanto che poi furono portati in caserma. Dopo poco, i carabinieri vennero ad arrestarmi e quando arrivai vidi Giuseppe Calabrò tutto rosso in viso, segno che aveva parlato. Disse delle bugie enormi ed io avevo voglia di vendetta».
La bomba non esplosa
La volontà di vendicarsi trova compimento, almeno negli intendimenti. Villani, infatti, racconta di essersi rivolto a Domenico Errigo, uomo vicino a diverse cosche di ‘ndrangheta, e di avergli chiesto dell’esplosivo, per collocarlo davanti all’abitazione dei Calabrò. Tredici chilogrammi di gelatina furono piazzati sotto la finestra della camera dei fratelli Calabrò. Fu Villani stesso a portarli e ad azionare l’innesco. Ma qualcosa andò storto. «Mi allontanai per poi sentire il botto, ma niente. Così decisi di tornare indietro e vidi che c’era stato un problema con l’innesco, la gelatina si era spappolata, capii che non se ne poteva fare più nulla». Una bomba, quella messa da Villani, in grado di fare danni enormi».
La massoneria deviata
Il racconto di Villani si snoda poi dalla sua copiata (in cui vi era Filippone), fino al ruolo avuto dai De Stefano e dai Piromalli nell’epoca delle stragi. Le riunioni con Riina, come accennato la scorsa volta, servirono a sancire gli accordi. Di tutto questo anche Nino Lo Giudice, che aveva il grado di padrino, ne era a conoscenza. Così, Villani si lascia andare ad affermazioni nette: «La massoneria deviata – spiega al procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo – è il vero cervello della ‘ndrangheta e non solo. Il vero potere ce l’ha lo ‘ndranghetista massone. Se non si è massoni, si ha un potere solo a metà». Ma chi sono i massoni mafiosi per eccellenza? Secondo Villani vi sarebbero «Paolo Romeo e Giorgio De Stefano, ma anche il politico Crea». Nell’elenco viene inserito anche Rocco Santo Filippone, paragonato, come carica, a quella di Pasquale Condello “Il supremo”. Per Villani «Romeo e De Stefano erano gli unici a poter aggiustare i processi a Reggio Calabria e in Cassazione». E Filippone come fece a rimanere fuori da tutto questo groviglio di indagini? Il pentito usa un’espressione dialettale: «Era difficile che lo arrestassero, perché era mmanigghiatu bonu (ben collegato) con pezzi delle istituzioni».
I mercenari della destabilizzazione
Il pentito, poi, incalzato dalle domande di Lombardo mette in risalto come ebbe modo di essere testimone oculare di un incontro avvenuto nel negozio di Cortese, dove incontrò un uomo e una donna. Parla di servizi segreti deviati, il pentito, e fa riferimento a «due mercenari che avevano il compito di destabilizzare lo Stato. Erano l’anello di congiunzione con ‘ndrangheta e Cosa nostra». Uno di loro, narra Villani, «aveva una deformazione alla parte destra del viso. Ho saputo che erano esperti di esplosivo, di azioni terroristiche, killer gestiti dai servizi segreti deviati. Lui so che si chiamava Aiello». Secondo Villani a quegli incontri erano presenti anche Nino e Luciano Lo Giudice. Con un particolare: «Ebbi la sensazione che la donna fosse più pericolosa dell’uomo».
Il terzo agguato e l’oltraggio ai carabinieri
Villani ricorda, non senza qualche imbarazzo, anche l’ultimo assalto ai carabinieri, quello in cui rimasero feriti Bartolomeo Musicò e Salvatore Serra. «Dovevano morire anche loro – assicura Villani – e infatti io vidi che quello alla guida si muoveva ancora e mi avvicinai per sparare con il fucile, mentre quello lato passeggero era fermo, sembrava morto. Sentimmo la sirene e ce ne andammo, per poi scoprire che non erano morti». Le azioni sarebbero dovute continuare, ma poi le cose si misero male. Ma emerge anche con forza la spregiudicatezza di entrambi i killer che “oltraggiarono” la memoria e il dolore dei familiari dei carabinieri Fava e Garofalo. Il racconto è agghiacciante: «Andammo prima alla camera mortuaria dove si trovavano i cadaveri, uno era col volto coperto, l’altro no. Ci fermammo per un po’, per poi andare via». Villani non riesce neppure a ricordare i commenti che si scambiarono con Calabrò, ma ricorda invece benissimo che andarono anche a piazza Duomo, dove era in atto una protesta contro la ‘ndrangheta. Sfrontatezza e inaudita crudeltà, dunque, da parte di due killer ragazzini che, per bocca dello stesso Villani, furono usati per scopi a loro sconosciuti, o almeno in parte, per quanto riguarda Calabrò.
Un’udienza, quella vissuta oggi, che, per la prima volta (e forse non sarà l’ultima), incrocia le risultanze di “’ndrangheta stragista” con quelle di “Gotha”. E probabilmente è qualcosa più che una coincidenza.
Consolato Minniti