«Sono stato io a rivendicare l'attentato ai carabinieri Fava e Garofalo». È quanto ha appena riferito il pentito Consolato Villani, nell'aula bunker di Reggio Calabria, al processo ndrangheta stragista. Il pentito ha raccontato che fu Giuseppe Calabrò, l'altro killer e nipote del presunto mandante Rocco Santo Filippone, a chiedere di fare una rivendicazione «una minaccia tipo quella delle falangi Armate, che doveva essere un atto terroristico contro lo Stato». Villani fece una telefonata da una cabina vicina ad una scuola, a Modena, con chi rivendicò l'attentato affermando che non si sarebbero fermati e che sarebbe stato solo l'inizio.


Villani ha poi ricordato che, subito dopo l'attentato, ci fu un brindisi a casa Calabrò, cui partecipò anche Francesco Calabrò, fratello di Giuseppe. «Francesco da quel momento sapeva tutto quanto. Quando scomparve, suo padre venne da me pensando fossi stato io ad ucciderlo. Erano convinti che fosse stato ucciso per i fatti dei carabinieri e mi disse almeno di fargli ritrovare il corpo». Il pm chiede se Calabrò morì per questi fatti, ma il pentito non è stato in grado di affermarlo con certezza.


Ci furono poi degli oltraggi commessi ai danni dei due carabinieri uccisi. I due killer infatti andarono addirittura nella camera mortuaria a trovare le salme e pure ai funerali. «Anche gli altri due carabinieri, quelli dell'ultimo attentato, dovevano morire, ma le cose non andarono come avevamo previsto».