Il Tribunale di Vibo in primo grado non ha riconosciuto il reato di associazione mafiosa con i giudici che nelle motivazioni hanno parlato di “totale vuoto probatorio”
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E’ stato fissato dalla seconda sezione penale della Corte d’Appello di Catanzaro il processo di secondo grado del procedimento penale nato dall’operazione antimafia denominata ““Black money” contro il clan Mancuso. Dodici in totale gli imputati che dovranno comparire in appello. La sentenza di primo grado era stata emessa dal Tribunale collegiale di Vibo Valentia, presieduto all’epoca dal giudice Vincenza Papagno, il 17 febbraio 2017. Le motivazioni del verdetto, che non ha riconosciuto il reato di associazione mafiosa contestato agli imputati, erano state depositate il 16 agosto 2017.
Ben 450 pagine in cui i giudici del Tribunale di Vibo Valentia hanno spiegato il percorso logico-giuridico seguito per affermare che “nessuna prova è emersa per il reato associativo contestato agli imputati”. Su 21 imputati, l’appello della Dda di Catanzaro, presentato dai pm Annamaria Frustaci e Marisa Manzini (quest’ultima in primo grado aveva sostenuto in aula l’accusa), e firmato anche dal procuratore capo di Catanzaro, riguarda solo 7 posizioni. Si tratta di sette imputati tutti assolti in primo grado dal reato di associazione mafiosa (alcuni dei quali condannati per il solo reato di usura o estorsione). Per altri imputati, invece, l’appello è stato presentato dai rispettivi difensori. Dinanzi alla Corte d’Appello di Catanzaro dovranno pertanto comparire il 4 aprile prossimo i seguenti imputati: Giovanni Mancuso, condannato in primo grado a 9 anni di reclusione per usura (richiesta del pm: 29 anni) e 9.000 euro di ammenda; Agostino Papaianni, 7 anni e 8 mesi di reclusione (richiesta pm: 28 anni e 6 mesi); Antonio Mancuso (cl. 1938), 5 anni di reclusione (27 anni la richiesta di pena); Pantaleone Mancuso, detto “Scarpuni”, assolto (26 anni e 6 mesi la richiesta del pm); Giuseppe Mancuso, 1 anno e 6 mesi anni di reclusione (19 anni la richiesta di condanna); Leonardo Cuppari, 5 anni di reclusione (12 anni e 6 mesi la richiesta della pubblica accusa); Antonino Castagna, imprenditore, assolto (12 anni la richiesta di pena); Gaetano Muscia, condannato a 7 anni di reclusione per usura ed estorsione (14 anni la richiesta del pm); Damian Fialek, condannato a 3 anni pure lui per usura ed estorsione (12 anni e 8 mesi la richiesta del pm); Antonio Velardo, immobiliarista napoletano, condannato a 4 anni di reclusione per reati finanziari (5 anni la richiesta); Antonio Prestia, imprenditore, 5 anni e sei mesi di reclusione (7 anni la richiesta del pm); Nicola Angelo Castagna, prescrizione dopo esclusione delle aggravanti delle modalità mafiose (3 anni la richiesta di pena del pm). L’appello della Dda. In 75 pagine di motivi d’appello, i pm Manzini e Frustaci tentano di ribaltare le conclusioni a cui sono giunti i giudici del Tribunale di Vibo Valentia (Vincenza Papagno presidente, giudici a latere Pia Sordetti e Giovanna Taricco). Un Collegio giovane ma verso il quale - dopo la lettura della sentenza - lo stesso pm Marisa Manzini, ai microfoni di LaC Tv, aveva riconosciuto "grande serietà professionale”. La Dda, nel proporre appello nei confronti di 7 imputati assolti in primo grado dall’accusa di associazione mafiosa, chiede anche alla Corte d’Appello di riaprire l’istruttoria dibattimentale per risentire in aula l’ispettore della Squadra Mobile di Vibo, Antonio Condoleo, per l’identificazione di alcuni conversanti presenti in intercettazioni di cui i pm hanno chiesto l’acquisizione quali nuove prove. In particolare, si tratta della perizia trascrittiva delle intercettazioni ambientali captate nel bar “Tony” di Nicotera Marina.
Naturalmente, la Corte d’Appello di Catanzaro, nell’esame dei motivi di reclamo della Dda, dovrà pronunciarsi non sull’esistenza del clan Mancuso - già riconosciuta da sentenze definitive e per nulla ignorate dal Tribunale di Vibo Valentia - bensì su indagini definite dai giudici di primo grado “lacunose, con un totale “vuoto probatorio” sull’associazione mafiosa dal 2003 al 2013”. Indagini e conclusioni degli inquirenti che in tema di prova sulle associazioni mafiose, secondo i giudici di primo grado, non avrebbero “per nulla tenuto conto degli insegnamenti della giurisprudenza della Cassazione”
Da tenere presente, inoltre, che i giudici di primo grado non hanno mandato assolti gli imputati dal reato associativo solo in relazione all’insufficienza dell’impalcatura accusatoria, ma anche per il “totale vuoto probatorio in relazione ai contatti tra gli imputati. Vuoto non colmato dai controlli e dalle intercettazioni dei soggetti vicini agli appartenenti alla cosca. In assenza di tali contatti - hanno scritto i giudici di primo grado - è davvero arduo ritenere, oltre ogni ragionevole dubbio, che gli imputati abbiano posto in essere azioni illecite (che pure molti di loro hanno continuato o ripreso a realizzare) in esecuzione di un programma comune e condiviso, in attuazione degli scopi avuti di mira dall’associazione e al fine di favorire la stessa e non, piuttosto, per perseguire singoli ed egoistici interessi criminali”.
Gli anni di pena complessivi comminati dal Tribunale di Vibo agli imputati sono stati solo 47 a fronte dei 220 anni di reclusione chiesti dal pm Marisa Manzini al termine della requisitoria.
Le assoluzioni definitive dell’abbreviato. La Corte d’Appello dovrà infine misurarsi pure con altre assoluzioni già definitive nel parallelo processo di “Black money” celebrato con rito abbreviato. Già in primo grado erano stati infatti assolti gli imprenditori Antonio Mamone e Bruno Marano per i quali il pm Marisa Manzini aveva chiesto in primo grado 5 anni di carcere a testa per associazione mafiosa. Tali assoluzioni non erano state appellate dal pubblico ministero ed erano quindi divenute definitive al pari di quelle di Gabriele Bombai e Salvatore Accorinti, di Tropea (5 anni a testa la richiesta del pm).
Il pm Manzini aveva invece appellato le assoluzioni totali di Antonio Maccarone (genero del boss Pantaleone Mancuso, detto “Vetrinetta”) per il quale in primo grado aveva chiesto 5 anni e 6 mesi, dell’imprenditore Domenico De Lorenzo (5 anni la richiesta del pm) e di Nunzio Manuel Calla’ (5 anni era stata la richiesta del pm), ma anche in Corte d’Appello i verdetti assolutori sono stati poi confermati. Sempre in appello si erano registrate infine le assoluzioni del commercialista di Catanzaro Giuseppe Ierace, di Giuseppe Raguseo (genero del boss Cosmo Mancuso) e Mario De Rito (5 anni e 4 mesi in primo grado). Per tutte le assoluzioni degli abbreviati non vi è stato alcun ricorso del pm in Cassazione e quindi i proscioglimenti sono divenuti definitivi.