Non sarebbe stato un semplice autotrasportatore di pezzi di ricambio l’uomo assassinato il 4 marzo del 2017 a Sant’Angelo di Gerocarne, nel Vibonese. Incensurato, e fino alla morte mai coinvolto in processi di mafia, Domenico Stambé, classe 1962, sarebbe stato invece un pezzo da novanta del locale ‘ndranghetista di Asti, in Piemonte. Emerge in maniera plastica dalle intercettazioni agli atti dell’inchiesta “Barbarossa”, che i carabinieri - coordinati dalla Direzione distrettuale antimafia di Torino - hanno condotto nei giorni scorsi, arrestando, tra gli altri, diversi congiunti del presunto capobastone (il fratello Salvatore Stambè, 41 anni, e poi anche Michele Stambè, 29 anni, Angelo Stambè, 42 anni, tutti originari di Sant’Angelo di Gerocarne) che avrebbe fatto la spola dalla Calabria all’Astigiano. 

Le indagini nelle Preserre

Sul delitto indagano i carabinieri di Vibo Valentia e Serra San Bruno, che – grazie alla sinergia con i colleghi piemontesi – acquisiscono elementi molto interessanti sul profilo della vittima, ipotizzando uno scenario diverso per un delitto consumato nelle Preserre vibonesi, in quello che da anni è il territorio di guerra tra i clan Loielo ed Emanuele. Uno scenario che – emerge dall’inchiesta “Barbarossa” – tratteggia invece le tensioni tra la vittima e gli stessi congiunti in seno alla società mafiosa di Asti. All’origine, secondo l’inchiesta “Barbarossa”, un’aggressione che Angelo Stambé, fratello di Domenico, avrebbe subito in carcere da due detenuti comuni, dopo l’arresto nel 2013 per il trasporto di un arsenale (20 fucili e 13 pistole). Domenico pretendeva che quell’affronto fosse vendicato per salvaguardare il buon nome della famiglia, cosa che però non avvenne.

La frattura interna

Si sarebbe così creata una frattura verticale tra gli stessi Stambè, che avrebbe raggiunto il punto di non ritorno quando in occasione dell’affiliazione del figlio di Angelo Stambè, di nome Antonio, contro Domenico Stambé si schierò anche un altro fratello, Salvatore Stambè. Se infatti Domenico Stambè avrebbe attaccato pesantemente il fratello Angelo, “colpevole di aver disonorato la famiglia”, dall’altra Salvatore Stambè, il quale già nutriva vecchi rancori con il fratello Domenico, approfittava di questa situazione schierandosi in suo favore". 

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In tale complicata situazione, secondo gli inquirenti, il conferimento di una "dote" al figlio di Angelo Stambè, giustificata dalla volontà del sodalizio di risarcire costui della detenzione patita e di ricompensarlo dei servizi resi, “costituiva certamente - scrivono i magistrati dell’operazione Barbarossa - per Salvatore Stambè una preziosa occasione per irritare Domenico Stambè e ribadire così la sua importanza all’interno della famiglia e quindi dell’intero sodalizio”. Tensioni interne ad una famiglia che i carabinieri hanno monitorato fino a tutto il 2016, sino all’omicidio consumato a marzo 2017.

 

Pietro Comito e Giuseppe Baglivo

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