Restano detenuti due omonimi cugini di Acquaro accusati di aver preso parte al triplice omicidio e al ferimento di una quarta persona per vendicare la scomparsa dei rispettivi genitori
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Confermata dalla Cassazione la gravità indiziaria nei confronti di due indagati per la strage di Ariola (frazione di Gerocarne, 25 ottobre 2003) coinvolti nell’operazione Habanero della Dda di Catanzaro scattata nel giugno scorso. Conferma anche per l’accusa di associazione mafiosa ed altri reati-fine e da qui il rigetto dei ricorsi presentati dai legali dei cugini omonimi Francesco Maiolo di Acquaro, rispettivamente classe 1983 e classe ’79, che restano così in carcere. Nella strage sono morte tre persone – Francesco Gallace, Giovanni Gallace e Stefano Barilaro – ed è rimasta ferita una quarta persona.
A sostegno dell’accusa, sostenuta dalla Dda di Catanzaro ci sono le dichiarazioni dei diversi collaboratori di giustizia (Francesco Loielo di Ariola, Enzo Taverniti di Gerocarne, Michele Ganino di Dasà, Daniele Bono di Sant’Angelo di Gerocarne, Diego Zappia di Oppido Mamertina, Rocco Oppedisano di Monsoreto di Dinami, Antonio Forastefano di Cassano, Andrea Mantella di Vibo Valentia e Raffaele Moscato di Vibo Marina), oltre ad un’attività investigativa nella quale preziose si sono rivelate le intercettazioni telefoniche e ambientali.
La ricostruzione degli avvenimenti
La Cassazione spiega quindi che alle ore 12:10 del 25 ottobre 2003 i carabinieri di Vibo Valentia venivano avvertiti telefonicamente da Ilario Antonio Chiera che, poco prima, in località ‘Ponte dei Cavalli’ sita nella frazione Ariola del comune di Gerocarne, ignoti avevano esploso colpi di arma da fuoco all’indirizzo suo e di altre tre persone che si trovavano con lui a bordo di un’autovettura. Due persone erano già decedute, mentre lui stesso ed un altro soggetto erano gravemente feriti. Giunti sul posto, i militari dell’Arma avevano rinvenuto la presenza, al centro della carreggiata, di un’auto fuoristrada Mitsubishi Pajero di colore bianco attinta da numerosi colpi di arma da fuoco principalmente nella parte anteriore; nell’abitacolo vi erano i cadaveri di Francesco Gallace e di Giovanni Gallace seduti, rispettivamente, al lato guida e al lato passeggero. Poco prima dell’arrivo dei carabinieri era giunta un’ambulanza del servizio 118 che aveva prestato le prime cure ad un giovane sdraiato sul ciglio stradale (identificato per Stefano Barilaro), il quale era gravemente ferito alla testa e sarebbe poi deceduto nella stessa giornata presso l’ospedale civile di Catanzaro dove era stato nel frattempo portato per le cure del caso.
Ilario Antonio Chiera, che aveva allertato le forze di polizia, risultava invece ferito in modo meno grave. A seguito dei rilevamenti effettuati dagli investigatori era stato possibile accertare che all’indirizzo dell’autovettura (in uso a Francesco Gallace) erano stati esplosi quattordici colpi di fucile calibro 12 a pallettoni.
L’azione di fuoco e l’auto dei killer abbandonata
I risultati scientifici hanno evidenziato che a fare fuoco sono stati almeno tre soggetti armati di due fucili semiautomatici da caccia calibro 12 e di un fucile da caccia del medesimo calibro; inoltre, un altro soggetto aveva provveduto al recupero dei sicari dopo l’agguato. Successivamente (il 4 febbraio 2004) gli investigatori avevano rinvenuto in una fitta zona boschiva, sita in località ‘Prasto’ della frazione Ariola di Gerocarne, poco distante dal luogo dell’agguato, i mezzi utilizzati dai sicari (due autovetture ed un ciclomotore) occultati tra la vegetazione nel fondo di un dirupo. “Il sopravvissuto Ilario Antonio Chiera aveva riferito che, mentre si trovava a bordo del fuoristrada seduto nella parte posteriore, aveva udito dei colpi di arma da fuoco e che era riuscito ad abbandonare l’auto grazie alla rottura di un finestrino posteriore da parte del Barilaro che era seduto vicino a lui. Ciò nonostante – spiega la Cassazione – Chiera era stato raggiunto da alcuni proiettili, ma riferiva che uno dei sicari (vestito con abiti militari e con passamontagna) sebbene si fosse accorto che egli era ancora vivo non aveva inteso finirlo”.
Le vendette nel “locale” dell’Ariola
Tale circostanza faceva ritenere agli investigatori che l’obiettivo dell’agguato “erano unicamente i due Gallace; l’episodio doveva quindi essere inquadrato – sottolinea la Suprema Corte – nella lotta in corso per il controllo del ‘locale di Ariola’ tra le vittime e la famiglia Maiolo nonché per la volontà dei fratelli Angelo e Francesco (classe ’79) Maiolo e del loro cugino Francesco Maiolo (’83) di vendicare l’uccisione dei propri genitori (Rocco ed Antonio Maiolo) avvenuta negli anni ’80 per mano proprio dei Gallace”. La Cassazione ricorda anche che la strage di Ariola era avvenuta “pochi giorni dopo il tentato omicidio in danno di Enzo Taverniti (soggetto vicino ai Gallace, poi divenuto collaboratore di giustizia), il quale preoccupato per la propria sorte – subito dopo il triplice omicidio – aveva cercato di contattare Bruno Maiolo (‘zio Bruno’) per risolvere la vicenda con i Maiolo (che, tra l’altro, erano anche suoi cugini)”. Quanto a Francesco Maiolo (classe 1979), indicato come uno dei mandanti della strage, per la Cassazione rilevano le “dichiarazioni del collaboratore Michele Ganino ed il contesto che vede i fratelli Angelo e Francesco Maiolo – assieme a Francesco Capomolla – condannati in via definitiva per il tentato omicidio di Enzo Taverniti”.
Un Maiolo affiliato in carcere
Riguardo poi la partecipazione all’associazione mafiosa da parte di Francesco Maiolo (classe 1983), che per tale reato era stato in precedenza assolto nell’ambito dell’operazione “Luce nei boschi” risalente al 2012, la Cassazione ricorda le nuove dichiarazioni di Andrea Mantella (collaboratore di giustizia dal maggio 2016) il quale ha spiegato di aver lui stesso proceduto al “battesimo” nella ‘ndrangheta di Francesco Maiolo “nell’anno 2014 durante un comune periodo di detenzione a Torino, a seguito della specifica richiesta in tal senso formulata da Enzo Taverniti all’epoca detenuto presso il carcere di Parma”. Tali dichiarazioni per la Cassazione devono essere “ritenute attendibili considerato, tra l’altro, l’avvenuto riscontro oggettivo rispetto alla detenzione del Taverniti nel carcere di Parma durante il periodo in oggetto. Deve poi aggiungersi che l’avvenuta affiliazione si colloca – ricorda ancora la Suprema Corte – in un periodo temporale (2014) sicuramente successivo a quello per i quale era intervenuta sentenza di assoluzione del ricorrente Francesco Maiolo (classe 1983), soggetto particolarmente fedele al cugino Angelo Maiolo in favore del quale si poneva a disposizione per le esigenze del sodalizio, tra cui quella (avente carattere indubbiamente fiduciario) di recarsi a Roma nel giugno del 2018 per versare ad un avvocato il corrispettivo per la difesa dei vari sodali nonché per corrispondere – su disposizione dell’omonimo cugino Francesco Maiolo classe ’79 – cinquemila euro alla moglie di uno degli associati (Francesco Capomolla)”.