Andrea Mantella aveva tre uomini fidati, «i tre soggetti più riconosciuti vicino a me». Ed un gruppo attrezzato per ogni evenienza: estorsioni, danneggiamenti, intimidazioni, anche se non c’era bisogno di ricorrere più di tanto a questo tipo di “persuasione”, «nel senso che eravamo riconosciuti come cosca predominante sul territorio e per i lavori pagavano tutti senza problemi». Lui ormai, da boss affermato, a certi livelli non si abbassava più.

Emergono nuovi particolari dei rapporti di forza interni alla cosca, fino al 2016 guidata dall’ex padrino oggi pentito, dai verbali depositati agli atti dell’inchiesta “Rinascita-Scott”. Andrea Mantella – è il 30 giugno 2016 – li rivela all’allora pm della Dda di Catanzaro Camillo Falvo e agli investigatori dell’Arma che stavano sulle tracce di boss e picciotti vibonesi da anni.

I tre fedelissimi

«Entrambi i miei cugini facevano parte del mio gruppo criminale, sia Vincenzo che Salvatore Mantella, e fino a quando non si è saputo della mia collaborazione, ancora andavano a fare le estorsioni a mio nome; con quelle somme, infatti, pagavano i miei avvocati e i miei periti, professionisti che io non ho mai pagato personalmente; ogni mese, inoltre, anche fino all’ultimo giorno prima della mia collaborazione, al carcere di Spoleto, mi facevano pervenire la somma di euro 500 mensili; ciò in quanto solo quella somma potevano mandarmi in carcere, il resto lo lasciavano a mio zio Armando Mantella, che provvedeva a mantenermi e a mantenere la mia famiglia».

Gli avvocati pagati dagli affiliati

Secondo “a guscia”, oltre ai suoi cugini «prendeva estorsioni a nome mio pure Salvatore Morelli: loro sono i tre soggetti più riconosciuti vicino a me». Al momento della sua ultima carcerazione, la situazione era così cristallizzata: «Francesco Scrugli era a “Villa verde” ai domiciliari, grazie al fatto che pagai per ottenere una sua finta depressione, lui stava bene economicamente perché io gli facevo avere i soldi che gli occorrevano, anche lui non pagava gli avvocati perché provvedevano quelli che stavano fuori». Ma sul campo, il peso di Mantella sulle spalle lo portavano sempre loro tre: «Il potere lo lasciai a Morelli Salvatore e ai due miei cugini, Vincenzo e Salvatore Mantella, i quali si servivano degli altri appartenenti al gruppo, ovvero Tomaino Domenico detto “U lupu”, Pardea Antonio, più altri ragazzi di cui si serviva Morelli, oltre al Tomaino e a Pardea».

«I soldi li distribuisco io»

Con l’era Mantella cambia anche la gestione del denaro, rispetto all’originario clan Lo Bianco: «Quando ho preso io le redini in mano, diversamente da quanto accadeva nel clan Lo Bianco dove c’era una cassa comune, una bacinellai soldi li gestivo solo io, nel senso che davo ai miei uomini una parte dei proventi del racket e lasciavo loro la possibilità di spacciare e fare qualche altro reato, tipo usura (soprattutto Morelli Salvatore e Mantella Salvatore, unitamente a De Rito Mario per mio conto), scambi di assegni sempre per usura, truffe alle assicurazioni, ecc…».

«Mario De Rito il mio delegato su Vena»

Mantella “lumeggia” anche sulla figura di De Rito: «Non è mai stato affiliato con nessun gruppo, è stata sempre una persona dedita all’usura e alle truffe, manteneva saldi rapporti per fare appunto truffe e usure con Giovanni Mancuso e Giovanni Campennì; sua sorella è sposata con mio cugino Salvatore Mantella, per cui io ne parla con lui e gli dissi che o convinceva il cognato a lavorare per noi, facendo girare soldi di usure ed estorsioni, oppure avremmo dovuto prendere provvedimenti, nel senso che lo avremmo fatto fuori». Inutile dire quale fosse stata la scelta di De Rito: «Mi portava i soldi delle estorsioni che pagavano quelli di Bartolini, del palazzetto dello sport, quello di “Stocco e stocco”, una ditta che aveva iniziato i lavori in una stradina sempre di Vena».

L’estorsione della discordia

Ed è proprio sull’estorsione a questa ditta che si rischia l’incidente “diplomatico”, che a queste latitudini significa vedersela brutta, molto brutta. «De Rito mi disse che il titolare non si era rivolto a lui e quindi come doveva comportarsi». Perché pare si fosse rivolto «a Paolino Lo Bianco e Pino Galati di Piscopio, i quali gli avevano detto che nessuno li avrebbe toccati». Mantella, però, non ammetteva che qualcuno “occupasse” un territorio che riteneva suo, come quello della frazione vibonese. «Io gli dissi (a De Rito, ndr) che doveva dire che su Vena, come per le altre attività, dovevano fare riferimento a lui e pagare lui, in quanto dietro c’ero io: io gli dissi a quel punto di far bruciare un escavatore alla ditta e lui mandò qualcuno a farlo».

Le scuse di Pino Galati per «l’errore di valutazione»

Un gesto che celava un “messaggio” agli ex compari del clan Lo Bianco: «Pino Galati mi chiese di incontrarci e ci siamo dati appuntamento al Cin Cin bar; in quella circostanza mi chiese scusa perché aveva fatto un errore di valutazione poiché Paolino Lo Bianco gli aveva assicurato che se la sarebbe vista lui con me; io gli risposi che la cosa mi innervosiva molto e che lui sapeva come stavano le cose su Vibo, che io non disturbavo sugli altri territori ma su Vibo città comandavo io e dovevano pagare me e non i Lo Bianco, che la situazione era incandescente; gli dissi, quindi, che dovevano pagare De Rito che se la vedeva per me su Vena; così avvenne, nel senso che la ditta pagò De Rito… mi diede intorno a 10mila euro per questi lavori. Mario De Rito – è l’estrema sintesi di Mantella – praticamente era un mio delegato su Vena…».

 

 

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