Si presenta da uomo libero, al Comando provinciale dei carabinieri di Crotone. Poche ore dopo, alle 18:03 del 22 marzo, Gaetano Aloe, figlio vecchio padrino Nicodemo “Nik” Aloe assassinato nel 1987, è già negli uffici della Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro, davanti al pm Domenico Guarascio e alla polizia giudiziaria. Non è uno colto, ma – spiega di sé – è uno che ha sparato. Quando il magistrato gli chiede «Stato civile?», lui risponde «nubile». «Celibe», lo corregge prontamente il pm. E lui si corregge: «Celibe».

Licenza media, nullatenente, disoccupato, quarantaquattro anni, confessa di essere uno ‘ndranghetista aderente al locale di Cirò Marina, quello dei fratelli Peppe e Silvio Farao e di Cataldo Marincola, che le indagini dei militari dell’Arma territoriale e del Ros, coordinate dal pool di Nicola Gratteri, hanno disarticolato grazie alla maxioperazione Stige. Imputato per associazione mafiosa, malgrado il pedigree rammenta di non aver mai riportato condanne.

Cinquanta pagine coperte da segreto, poi il suo racconto sul fatto di sangue che decretò il suo battesimo ed il conferimento di tre doti di ‘ndrangheta in un sol colpo, ovvero l’omicidio di Vincenzo Pirillo. Cirò Marina, 5 agosto 2007: un gruppo di fuoco composto da sicari a volto travisato, sparò senza pietà facendo irruzione in un ristorante, incurante della presenza di testimoni e di bambini. Una bimba fu colpita di striscio da un proiettile, altri caddero a terra feriti. Si sfiorò la strage. C’era Giuseppe Spagnolo – secondo le indagini del pm Guarascio e dei suoi colleghi – a guidare la squadra della morte, su mandato dei vertici del locale ‘ndranghetista cirotano.

Al tempo, i mammasantissima erano tutti alla macchia e delegarono nella gestione degli affari proprio Pirillo: riottoso, nel rispettare gli ordini dei Farao-Marincola, specie nella gestione della cassa comune, fu condannato a morte. Tra i boia c’era pure Gaetano Aloe e per primo, a dirlo, fu Nicola Acri “Occhi di ghiaccio”, l’ex boss di Rossano che condivise la latitanza, proprio nell’estate del 2007, con Cataldo Marincola: «Ricordo – svelò ai pm di Catanzaro – che Cataldo mi disse che Gaetano Aloe aveva combinato un casino in quanto aveva sparato anche una bambina».

Aloe, nel raccontare quella spedizione di morte, spiega di avere ricevuto in dotazione due armi corte, ovvero «una 38 e una 9x21». Entrarono nel ristorante con «due passamontagna rosa, nu collant rosa cu ‘i bucchi all’occhi e nu cca e basta… Siamo entrati dietro e Vincenzo era con le spalle così e io c’haj sparatu i primi dui botti, ch’ahj sparato io tre botte cussì…».

Il 31 marzo 2023, messo di nuovo sotto torchio agli inquirenti Aloe spiega cosa avvenne dopo e, in particolare, della discussione con il cognato, Giuseppe Spagnolo appunto: «”L’haj vist cchi cazz hai cumbuinat, teni na picciuliddha”, me cazziava sube ste cose…». Resta che Pirillo doveva morire, ad ogni costo, anche perché - spiega il presunto killer reo confesso - «Cataldo (Marincola, ndr) ce l’aveva con Cenzo ppé nu semplice motivo, ca ha fatto ammazzara a Natale Bruno, chidu ‘on l’ha perdunato, Cataldo…».

Natale Bruno venne assassinato il 13 settembre 2004, sempre a Cirò. Ci furono, dunque, altri cadaveri, sia prima, sia dopo, quello di Pirillo. In particolare, ci fu quello di Cataldo Aloisio, freddato il 27 settembre 2008 nei pressi del cimitero di San Giorgio a Legnano, per il quale il Tribunale di Busto Arsizio ha condannato all’ergastolo il boss Vincenzo Rispoli e assolto altri quattro imputati. Una scia di sangue per ristabilire l’ordine in seno ad una delle più potenti compagini mafiose d’Italia, quella di Cirò appunto.