Processo Maestrale

La verità di Emanuele Mancuso: «Ascone era il mio mentore: mi consigliò di non mettermi mai contro Accorinti o la mia famiglia»

Il pentito racconta il suo rapporto «quotidiano» con Pinnularu. La ferocia del boss di Zungri («l’ho visto che stava uccidendo un ragazzo di 20 anni») e la bugia sulla rapina: «L'ho fatta perché volevo trasferirmi nel Lazio e lavorare a una piantagione con i Bellocco»

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di Alessia Truzzolillo
20 luglio 2024
10:40

Dal 2014 al 2018 il rapporto tra Emanuele Mancuso, figlio di Pantaleone Mancuso detto l’Ingegnere, e Salvatore Ascone, imputato nel processo Maestrale con l’accusa di essere intraneo alla cosca di Limbadi, è stato stretto e quotidiano. «Era diventato il mio mentore», racconta il rampollo del clan più numeroso e potente del Vibonese, collaboratore di giustizia dal 2018.

I traffici di droga

Il pm della Dda di Catanzaro Irene Crea ha chiesto, nel corso dell’ultima udienza, se Mancuso avesse contezza di traffici di droga e armi da parte di Ascone.
«La droga era una cosa di tutti i giorni – ha spiegato Mancuso – l’ho vista io personalmente. Io andavo tutti i giorni a casa sua e trafficava cocaina. Aveva un suo gruppo di soggetti che operavano per lui».
Il collaboratore racconta di avere cominciato a frequentare casa Ascone dal 2014 fino al 2018, anno in cui è stato tratto in arresto e ha poi deciso di collaborare per dare un futuro diverso a sua figlia che stava per nascere.


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A casa di Ascone, Mancuso vedeva le persone che arrivavano e a volte «io venivo incaricato di recupero crediti» senza contare il fatto che Ascone, detto, Pinnularu, riforniva di cocaina anche Emanuele Mancuso. Rifornimenti grossi, da un chilo in su, che avvenivano una, due, tre, quattro volte al mese «a secondo delle richieste che provenivano dalle piazze di spaccio».
«Giusto per ricordarvi – racconta il collaboratore – io ho un processo con delle imputazioni con Giuseppe Soriano per un paio di scambi di stupefacenti, un processo per cocaina con i fratelli Fabiano e poi avevo diverse piazze di spaccio giù in Calabria e anche a Milano». Insomma, dice Mancuso, «la cocaina la maneggiavo tutti i giorni»

Armi, droga e soldi sotterrati o murati

Emanuele Mancuso racconta anche che Salvatore Ascone teneva «armi, droga e anche soldi sotterrati» nelle campagne, in terreni che gestiva, che «dove ancora acquistare o che occupava abusivamente». Ma in un momento storico preciso nel corso del quale «voleva uccidere il vicino, La Gamba», Ascone decise di murare le sue cose col cemento. Il collaboratore ha raccontato di conoscere questi particolari «perché ero là. Perché lui incaricava il figlio Rocco di andarle a prendere». I buchi per sotterrare venivano fatti con una trivella o con una ruspa che Ascone, dice Mancuso, aveva preso per un debito di droga che una famiglia di Rosarno aveva con lui. Aveva preso anche un gruppo elettrogeno che poi diede a Francesco Mancuso detto Tabacco.

La paura di Ascone per la collaborazione di Furfaro

«Un giorno manifestò una brutta paura che si era preso quando collaborò (Arcangelo, ndr) Furfaro di Reggio Calabria e lui era intimo con mio fratello e Dominic Signoretta». Ascone raccontò a Mancuso che erano andati a fare perlustrazioni e buchi sottoterra ma «per fortuna – disse Ascone a Mancuso – non hanno trovato niente».

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I fornitori e i compratori di Ascone

Ascone ha confidato di rifornirsi di droga «da Palamara e anche dai Pesce-Bellocco». Ad ogni modo «la famiglia Mancuso aveva i suoi canali diretti con il Sudamerica». I rifornimenti dipendevano dal periodo storico. «Una volta ha detto a mio fratello – prosegue Mancuso – che si riforniva a San Calogero. Avevano degli amici in comune, soggetti che portavano la droga dal Sudamerica».

Da Ascone di gente ne andava parecchia: «Andava sempre Michele Galati, andava Mariano Mancuso, i figli di Peppe Mbroglia, aveva un credito con Giuseppe Baratta detto Pinuccio. Poi si interscambiavano la droga con Mimmo Gallone alias Pizzichiju. Lui aveva dei fedelissimi: il nipote, Giuseppe di Leo, De Stefano che aveva una cartolibreria a Nicotera, avevano una piazza di spaccio, e un soggetto che vendeva cocaina a Milano, una sorta di faccendiere di Ascone».
Tra l’altro Ascone avrebbe rifornito di droga, attraverso Emanuele Mancuso, anche i Soriano nel periodo che va dal 2017 all’arresto del collaboratore.

«Sono pieno di armi non so nemmeno dove le metto»

Per quanto riguarda le armi, Emanuele Mancuso ha appreso che Salvatore Ascone ne era ben fornito in seguito a due circostanze ben specifiche.
In un caso, «quando litigò di brutto con Leo La Gamba di Limbadi, un soggetto che frequentava Domenico Mancuso, alias Tequila, figlio di Francesco Mancuso detto Tabacco» Ascone disse «adesso smonto tutto che ho i mitra murati e u fazzu buca buca». Ma Ascone non fece «buchi buchi» La Gamba perché intervenne Emanuele Mancuso anche tramite suo cugino Domenico Mancuso e suo lo zio Francesco Tabacco.

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La seconda occasione in cui Emanuele Mancuso apprese del possesso di armi da parte di Salvatore Ascone, fu in seguito alla riscossione di un credito di 30mila euro che il giovane doveva avere da due fratelli «perché io portavo la cocaina di Ascone nelle Preserre vibonesi».
In quella occasione gli venne proposto di pagare il debito con delle armi e diedero a Mancuso un foglio con l’elenco di tutte le armi che possedevano, tra cui bombe o giubbotti antiproiettile. «Vedi se quello che ti rifornisce può scontare il debito con le armi», chiesero i due fratelli.
Ma Ascone rifiutò l’offerta dicendo «che lui era pieno di armi: “Io sono pieno, non so nemmeno dove le metto”».

Altre scene alla quale Mancuso avrebbe assistito erano i «continui litigi» di Ascone con la moglie, nel corso dei quali il marito diceva alla consorte «che la spara in testa: “Piglio la pistola e ti sparo”».

Il discorso sull’omicidio di Roberto Soriano

«Con Ascone parlavamo di tutto – dice Mancuso –. Parlavamo di mio zio Peppe Mbroggja, della famiglia, di Luigi. Lui era diventato il mio mentore. Parlavamo di Diego Mancuso, di mio padre, di mio fratello. Io mi sedevo a tavola a mangiare persino quando veniva l’avvocato Sabatino. Ero di casa e lo sapevano tutti».

Nei tanti discorsi fatti, in una occasione Ascone ha avuto modo anche di parlare dell’omicidio di Roberto Soriano, il cui figlio era molto amico di Emanuele Mancuso. Il collaboratore ricorda che Ascone aveva dato dei soldi a garanzia ai fratelli Valerio e Giuseppe Navarra per una partita di marijuana che doveva venire dagli albanesi. La droga albanese però non di vendeva e i Navarra non pagavano la garanzia. Ascone voleva liquidità e Mancuso finì per litigare con Valerio Navarra. La cosa portò a un incontro con Giuseppe Navarra, Giuseppe Antonio Accorinti e altri, nel corso del quale «Accorinti mi diede i soldi e poi si recò da Ascone per avere indietro lo stupefacente» ma Ascone rifiutò perché disse che prima doveva essere autorizzato da Emanuele Mancuso. In quella circostanza Ascone chiamò subito Mancuso e gli consigliò di non litigare con Accorinti «e vedi che questo al padre del tuo amico l’ha macinato col trattore». In più Pinnularu gli disse di «allinearmi con Luigi, non andare mai contro la tua famiglia, mai contro Luigi».

«Ho visto Accorinti che stava uccidendo un ragazzo di 20 anni»

Il giovane Mancuso venne messo in guardia da Giuseppe Antonio Accorinti anche dal padre e «poi ho visto io personalmente Accorinti che stava uccidendo un ragazzo di 20 anni», dice ma il discorso viene stoppato subito.

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La rapina nel territorio conteso tra Soriano e Accorinti

Ci fu un’occasione in cui, per finanziare un suo personale progetto, Emanuele Mancuso fece una rapina a Vena Superiore di Ionadi in un locale di proprietà di un uomo di Filandari, territorio all’epoca conteso tra i Soriano ed Accorinti. Subito dopo il fatto Emanuele Mancuso venne chiamato a rapporto da Ascone. Il collaboratore ricorda che parlarono a casa di Punnularu davanti al camino e Ascone gli chiese conto di quella rapina. «Dissi che non ero stato io, ma ero stato io in realtà – racconta oggi Mancuso –. Presi i soldi e andai a Milano dove scaricai due borsoni di semi di marijuana. Se avessi ammesso che ero stato io avrei dovuto restituire i soldi e invece io volevo fare una piantagione di marijuana di almeno un milione di piante. Volevo trasferirmi nel Lazio a farlo con la famiglia dei Bellocco».

Giuseppe D’Angelo e Pantaleone Perfidio «faccendieri dei Mancuso»

Il collaboratore parla infine della conoscenza che aveva di due soggetti: Giuseppe D’Angelo, «detto Menzannotti, lo conosco, stava con Domenico Mancuso alias Nikita figlio di Peppe Mbroggja, uscito dal carcere operava anche per conto di mio padre e di Scarpuni che stava sempre con la famiglia Megna di Nicotera marina. D’Angelo faceva piantagioni e trafficava cocaina».
E infine gli viene chiesto di Pantaleone Perfidio: «Era una sorta di faccendiere della mia famiglia, mio, di mio fratello e di mia madre. Perfidio con me ne ha fatto a bizzeffe di piantagioni. Avevo rapporti intimi con questi soggetti, sapevo che D’Angelo operava per mio padre, prendeva ordini solo da lui, e Perfidio operava per la mia famiglia». Ma cosa significa “operare” per conto della famiglia Mancuso?
Le mansioni, spiega il collaboratore, sono varie: «Nascondi un’arma , mandi un’imbasciata, recuperi crediti, metti una bomba». Questo fa un faccendiere dei Mancuso.

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