Sulla consistenza dei rapporti tra Giuseppe Falcomatà e Daniel Barillà, politico che per la Dda di Reggio Calabria è legato al clan Araniti, si gioca il coinvolgimento del sindaco nell’inchiesta sul voto di scambio politico-mafioso in riva allo Stretto. Questione (anche) giuridica: si tratta di stabilire se il primo cittadino avesse compreso fino in fondo la mafiosità del contesto in cui si muoveva Barillà. Nei confronti di Falcomatà non è stata chiesta dalla Dda alcuna misura cautelare. Le annotazioni del gip Vincenzo Quaranta nei suoi confronti, tuttavia, sanno di censura politica.

Quando la sfida elettorale del 2020 si avvia a entrare nella fase decisiva, è chiaro che Reggio Calabria andrà al ballottaggio tra il primo cittadino uscente e Nino Minicuci, candidato del centrodestra. In quella fase, sottolinea il giudice per le indagini preliminari Daniel Barillà, esponente del Pd considerato il politico di riferimento del clan Araniti, e la cosca «iniziavano ad attivare i loro consueti canali per favorire l’elezione di Falcomatà». Il sindaco, «dal suo canto, per l’evidente timore della sconfitta elettorale, accoglieva volentieri le strategie elettorali del pupillo degli Araniti, superando la ritrosia iniziale che fino a questo momento aveva caratterizzato il loro rapporto».  

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Falcomatà a Barillà: «Ho bisogno di una grande, grande mano»

L’«accordo» tra i due sarebbe apparso «evidente già dalle conversazioni intercettate in prossimità della comunicazione dei risultati del primo turno elettorale, nella mattinata del 21 settembre 2020, quando era già chiara la necessità di ricorrere al ballottaggio per l’elezione del sindaco reggino». A Falcomatà, Barillà «indicava la strada da percorrere insieme»: «Se al ballottaggio si arriva con Minicuci dovremmo vincere facile», spiega. E suggerisce anche di «chiudere le piccole frazioni» anche se «sembrano inconsistenti» perché è lì che si gioca una parte della partita.

Trovato un canale di comunicazione, inizia «la campagna elettorale a favore di Falcomatà» che passa per il coinvolgimento di uno dei fedelissimi di Barillà, Ignazio Borruto, anche lui indagato nell’operazione “Ducale”.

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Gli inquirenti cerchiano in rosso una «fondamentale conversazione tra Falcomatà e Barillà». In questa telefonata intercettata dal Ros, il sindaco sembra chiedere «espressamente» l’aiuto di Barillà: «Che vogliamo fare», «ho bisogno di una grande, grande mano». Quello che gli investigatori ritengono il pupillo della ’ndrina offre «garanzie in tal senso e un piano di pronta attuazione»: «Dobbiamo vincere», «noi ci dobbiamo vedere… ti dico quello che penso io, poi nei prossimi giorni… facciamo due incontri e via e poi non dobbiamo vederci più. E ci vediamo il sei».

Il consiglio al sindaco: «Inutile fare cene e aperitivi, per vincere serve altro»

Al termine della chiamata, Falcomatà invita Barillà «a vedersi nella sede del suo comitato elettorale, dandogli la disponibilità di un accesso riservato da un’entrata laterale che, tuttavia, Barillà non sfruttava» perché aveva «deciso di schierarsi apertamente per la sua elezione, giustificando la scelta sulla base del fatto che oramai era chiara la sua posizione, per via dell’aperto sostegno a Peppe Sera, consigliere comunale del Pd per il quale la Dda ha chiesto al l’arresto, rigettato dal gip.

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Le telefonate sembrano alludere a un patto chiaro: «Sindaco buongiorno, allora io mi sono fatto una chiacchierata con un paio di persone... Bisogna essere operativi, è inutile fare cene, cenette e incontri e aperitivi, cioè bisogna fare incontri singoli, quindi se tu mi dici il giorno». Barillà è un uomo del fare: al bando aperitivi e occasioni informali, meglio puntare su «incontri singoli». Tutte indicazioni che, per i magistrati, «effettivamente verranno seguite alla lettera da Falcomatà».

La macchina elettorale di Barillà parte e macina consensi: bisogna portare a casa il risultato al ballottaggio «e poi andiamo a sederci ai tavoli che contano».

Per i pm reggini non basta per chiedere una misura cautelare a carico del sindaco. Per Falcomatà, infatti, non c’è una prova sufficiente della consapevolezza del rapporto tra Barillà e il capocosca Domenico Araniti e di quanto la raccolta dei voti fosse funzionale alle esigenze del clan di Sambatello.