Nelle motivazioni della sentenza che ha portato a 15 condanne e 15 assoluzioni, il Tribunale traccia il profilo della struttura segreta che negli ultimi 30 anni ha lavorato in riva allo Stretto per rendere «il fenomeno criminale più insidioso, subdolo e di difficile accertamento»
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Se non è una vera e propria enciclopedia della ‘ndrangheta reggina, poco ci manca. È questo quello che emerge dalle motivazioni del processo “Ghota” che si era concluso il 30 luglio 2021 nell’aula bunker con 15 condanne e 15 assoluzioni. Una ricostruzione che alza il livello in termini di massomafia descrivendo quali sono, a giudizio del collegio presieduto dalla dottoressa Silvia Capone, gli assetti che hanno governato le sorti di Reggio Calabria negli ultimi 30 anni.
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Un sistema che comprende le «menti più raffinate della ‘ndrangheta», teso ad «elaborare una strategia alternativa, finalizzata a cambiare il fenomeno criminale, rendendolo ancora più insidioso in quanto più subdolo e di difficile accertamento». Un fenomeno resosi evidente con la nascita di una struttura riservata fatta di pezzi di Stato deviato e massoneria "spuria".
Ad emergere dalle carte è come, nella sua evoluzione, la ‘ndrangheta «abbia subito dei cambiamenti, al fine di limitare il ricorso ai metodi violenti tradizionali e tipici dell’organizzazione e per approdare a strategie moderne, connotate dalla sua infiltrazione nei gangli e negli apparati istituzionali per il condizionamento della gestione della cosa pubblica ed il conseguimento di profitti particolari».
Delineata quella “zona grigia” più volte richiamata nel maxi processo che ha riunito le inchieste "Mamma Santissima", "Reghion", "Fata Morgana", "Alchemia" e "Sistema Reggio". Uno dei più importanti celebrati a Reggio Calabria che ha visto la figura cardine di vertice, l’avvocato Paolo Romeo. Una «metamorfosi» del sistema criminale che si è radicato ed evoluto in modo tentacolare riuscendo ad inquinare ogni apparato. Una genesi tristemente nota che ha macchiato di sangue le strade reggine.
«I metodi violenti, le strategie della sopraffazione criminale, sia nei confronti delle vittime, sia nei confronti delle consorterie contrapposte, certamente hanno comportato per i protagonisti un elevato prezzo, in termini di esposizione e visibilità alle forze dell’ordine, con conseguente repressione e carcerazione degli autori dei delitti, ed in termini di vite umane, in occasione delle cruente faide che hanno insanguinato il territorio di Reggio Calabria nelle due guerre di mafia», scrivono i giudici.
Ma il cambiamento di approccio della criminalità ha determinato la nascita di quel sistema deviato che ha visto «le menti più raffinate della ‘ndrangheta elaborare una strategia alternativa, finalizzata a cambiare il fenomeno criminale, rendendolo ancora più insidioso in quanto più subdolo e di difficile accertamento. In tale percorso evolutivo, determinato certamente dalla finalità di preservare il potere criminale acquisito, ha inciso la necessità di contenere gli effetti destabilizzanti della forte e costante operazione di contrasto posta in essere dallo Stato».
Un cambiamento, quello della ‘ndrangheta reggina, che questo processo ha segnato vedendolo snodare nel tempo in diversi binari. Una metamorfosi, appunto, che «non è venuta certamente dall’esterno, ma da determinazioni di soggetti intranei al fenomeno criminale, capaci di strategie riservate a menti raffinate, in quanto difficili da comprendere ai più tra gli adepti. E proprio in quanto metodi inusuali, ed apparentemente antitetici alla stessa essenza prevaricatrice della ‘ndrangheta, essi sono stati ideati e gestiti da soggetti che hanno mantenuto un ruolo occulto».
E la genesi del mutamento è stata individuata nella «nascita della santa, la prima dote concepita per consentire agli appartenenti alla ‘ndrangheta di approcciarsi ad esponenti dell’imprenditoria, della politica e dello Stato con il metodo del dialogo».
I tentacoli della ‘ndrangheta, dunque, con questo sistema occulto sono riusciti a pervadere la città. Infatti, per ogni trattativa «la ‘ndrangheta ha avuto sempre un corrispettivo da offrire ai suoi interlocutori: agli imprenditori, la protezione nell’accaparramento o aggiudicazione di occasioni di guadagno, attraverso l’imposizione degli imprenditori favoriti a soggetti pubblici e privati, dietro il corrispettivo di una percentuale dei guadagni sotto forma di risorse finanziarie o assunzioni di soggetti intranei o contigui alle organizzazioni. Ai politici il sostegno elettorale del più grande elettore del territorio, la ‘ndrangheta, creando una posizione, per quest’ultima, di credito da far valere nella successiva amministrazione della cosa pubblica, in modo da poterla condizionare a proprio favore, grazie alla presenza dei politici eletti con il consenso mafioso nel cuore delle istituzioni; allo Stato, ed in particolare ad una parte delle forze dell’ordine, della magistratura e dei servizi segreti, le informazioni utili alla cattura di latitanti e/o all’accertamento di attività criminale, assicurando apparenti successi nelle iniziative di contrasto alla criminalità organizzata, e traendo la duplice utilità: del conseguimento delle informazioni utili a vanificare le genuine ed autentiche operazioni investigative e repressive, nonché di favorevoli pronunce giudiziarie; dell’eliminazione, senza lo spargimento di sangue proprio dei metodi tradizionali, degli avversari».
Un racconto dettagliato che vede richiami storici per nulla casuali a «una fase storica corrispondente a quella della stagione stragista, un connubio tra criminalità organizzata e movimenti terroristici. Accanto ai soggetti di estrazione tipicamente criminale, ed allo sviluppo delle strutture organizzative superiori, acclarate in una determinata fase storica nella Provincia articolata nei tre mandamenti, destinata ad applicare le regole tradizionali, si sviluppava l’esistenza di una struttura collaterale, riservata a pochi soggetti di identità occulta alla base, con cui necessariamente la ‘ndrangheta tradizionale nelle sue strutture apicali doveva interloquire, nell’assicurare il governo della ‘ndrangheta militare, costituente comunque il bacino della forza operativa».
Così si è intensificato quel rapporto «ambiguo» che ha presto cancellato i confini tra gli apparati criminali e quelli dello Stato. Commistioni che hanno segnato e consolidato una «struttura collaterale composta da appartenenti sia alla ‘ndrangheta tradizionale, nei suoi rappresentanti più capaci dell’elaborazione di strategie di “accerchiamento” delle istituzioni, sia di soggetti appartenenti alla c.d. zona grigia, e cioè di professionisti, politici, appartenenti alle forze dell’ordine ed ai servizi deviati. Detta struttura, in ragione della sua finalità, che era quella della costituzione di un ponte di collegamento stabile tra criminalità organizzata ed apparati dello Stato, necessariamente era dotata di un livello di segretezza ancora maggiore rispetto a quello intrinseco alla organizzazione criminale tradizionale. Essa trovava humus favorevole nella massoneria e nelle logge massoniche spurie, quale luogo di incontro in contesti segreti secondo le stesse regole massoniche dei due contesti solo apparentemente contrapposti».
Questa la genesi di un processo che ha scritto la storia della criminalità reggina destinata a diventare il punto di non ritorno.