I carabinieri di Reggio Calabria erano finiti nel mirino della strategia stragista delle mafie ancor prima dell’omicidio di Antonino Fava e Vincenzo Garofalo per il quale è stata confermata la condanna . Due attentati precedenti all’eccidio del 1994 con un unico obiettivo: quello di «“piegare” lo Stato alle richieste di attenuazione e/o eliminazione del carcere duro per mafiosi e ‘ndranghetisti e alla revisione della legislazione sui collaboratori di giustizia, che rappresentavano entrambi aspetti di particolare rigore per i criminali interessati, impeditivi della realizzazione dei propri interessi».

L’attacco eversivo pianificato nei primi anni 90 sull’asse Calabria-Sicilia ha trovato sponde anche in apparati deviati dello Stato. Le motivazioni della sentenza del processo ‘Ndrangheta stragista ricostruiscono questo rapporto e il suo strumento principe: la Falange armata. Più una sigla che un vero e proprio gruppo operativo.

La sua storia è, per i giudici, la conferma della «stretta “vicinanza” fra la ’ndrangheta e i servizi segreti» e attesta «una sinergia operativa fra i due organismi negli specifici episodi criminosi». La Falange Armata sarebbe stata usata da Cosa nostra «per finalità di depistaggio». È per questo che «la rivendicazione degli attentati ai carabinieri con la medesima sigla è frutto del “suggerimento” dei servizi segreti deviati. Del tutto evidente quindi come, anche sotto tale profilo, si rafforzi la dimostrazione dello strettissimo collegamento sussistente fra ‘Ndrangheta, Cosa Nostra e i servizi segreti nel piano di destabilizzazione dello Stato, per il raggiungimento, ognuno, dei propri obiettivi di natura comunque eversiva».

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Quattro attentati e un brand per depistare

La sigla che tiene insieme i due mondi lega quattro crimini commessi in Italia tra il 1990 e il 1994: l'omicidio dell'educatore carcerario Mormile, del magistrato Scopelliti e le stragi continentali, nonché l'omicidio dei due carabinieri Fava e Garofalo. Quattro passaggi storici tenuti insieme che rientrano nella strategia «eversiva di minaccia allo Stato».

Mormile viene ucciso «su mandato dei fratelli Antonio e Domenico Papalia e di Franco Coco Trovato»: ’ndrangheta di primo livello. In questo caso, l’utilizzo della Falange Armata – lo racconta il pentito Foschini, legato ai Papalia – «era finalizzato a depistare le indagini». «Lo volevamo far passare come terrorista, no come ucciso dalla ’ndrangheta, perché là c’era Antonio Papalia in carcere», spiega il collaboratore di giustizia. Mormile, educatore carcerario nel penitenziario di Opera, aveva ostacolato i contatti in corso tra Domenico Papalia e gli 007 deviati durante la detenzione: una scelta da pagare con la vita. I servizi avrebbero “inventato” il brand e, per il collaboratore Fiume, quel delitto, «seppure eseguito per volere del “consorzio” (ossia del “potere assoluto che dominava su tutti”, con a capo Antonio Papalia e Coco Trovato), rappresentava in realtà un ordine dei Servizi segreti che erano i veri mandanti».

È un elemento che allarga il quadro ben oltre le cosche calabresi: Fiume, quando si riferisce ai rapporti tra i Papalia e il generale Delfino, spiega che «dietro la 'ndrangheta ci sono persone di livello superiore che decidono la “rotta”» e racconta «di avere fatto anticamera, insieme a Giuseppe De Stefano e ai boss Pelle e Alvaro, presso lo studio di Rocco Papalia».

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Rivendicazioni da Bari a Lamezia: poi, dal 1994, la Falange svanisce nel nulla

La Falange Armata inizia così a operare e le indagini raccontano «l’esistenza di una lunghissima serie di rivendicazioni che, a partire dall'omicidio Mormile, hanno utilizzato la sigla "Falange armata carceraria" o semplicemente "Falange armata", indirizzate precipuamente al carcere di Opera o all'agenzia Ansa di varie città». Sono invettive in cui si critica la legislazione penitenziaria, si citano l'omicidio Mormile o altre uccisioni, o si preannuncia che nei la stazione di Bologna era stata lasciata «una bobina contenente una serie di indicazioni di interesse per quanto atteneva la struttura Gladio e la strage di Bologna».

La Falange rivendica anche l’omicidio del giudice Scopelliti e l’incendio del teatro Petruzzelli di Bari e, ancora, l’uccisione del sovrintendente di polizia Aversa e della moglie, avvenuta a Lamezia. In un periodo di detenzione, il pentito siciliano Avola avrebbe saputo che quella sigla era a disposizione della criminalità organizzata: gli dissero che «si doveva rivendicare tutto ciò che si colpiva lo Stato, alla "Falange Armata" doveva ritornare, anche se era ... qualsiasi cosa, anche se non eravamo stati noi altri, diciamo, rivendicare subito "Falange Armata”». La lunga sequenza di rivendicazioni va avanti fino al 4 febbraio 1994, quando con una lettera anonima la Falange si assume la paternità dell’omicidio di Fava e Garofalo. Da quel momento in poi la sigla che teneva insieme ’ndrangheta e servizi segreti deviati scompare nel nulla.

Il brand sparisce ma le tracce lasciate negli anni sembrano rimandare alla parole del collaboratore di giustizia Pasquale Nucera. Il pentito spiega che «tra la fine degli anni 80 e l'inizio degli anni 90 (…) "la 'ndrangheta, cosa nostra, le logge massoniche, quelle deviate, i servizi segreti deviati, si sono inglobati e fusi in un unico progetto criminale…». Che sia proprio quel «livello superiore» che decideva «la rotta»?

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L'inizio dei rapporti con i sequestri di persona e il legame De Stefano-Concutelli

Il pentito Foschini cerca di collocare nel tempo l’inizio di questa oscura liaison tra clan e apparati deviati dello Stato. E precisa «che era nota a tutti l'esistenza di rapporti di Papalia con i servizi, risalenti al periodo dei sequestri di persona, di cui il collaboratore era a conoscenza dagli anni 90». Queste le sue parole, riportate in sentenza: «All'epoca quando c'erano i sequestri, io (i Servizi segreti dicevano, ndr) vi lascio in pace, però voi non fate più sequestri. Questo è quello che dicevano loro, dottore, eh! Preciso. "Loro", i nomi glielo dico: Antonio Papalia, Domenico Papalia, Franco Coco Trovato, Antonio Schettini, Carmine Di Stefano, Giuseppe Di Stefano. E anche Salvatore Pace si parlava di questi fattori dei Servizi Segreti, lo sapevano quasi tutta la 'Ndrangheta, dottore, eh! Non era una novità”».

Legami con i Servizi segreti sarebbero esistiti, secondo i pentiti, «anche con esponenti della cosca De Stefano. Lo dice, tra gli altri, anche Filippo Barreca quando affianca il nome dello storico casato mafioso a quello del terrorista neofascista Pierluigi Concutelli: «I rapporti fra i De Stefano e Concutelli, di cui ho riferito nei verbali resi a suo tempo, si originano dai rapporti strettissimi fra i De Stefano e i servizi segreti che, non a caso avevano originato anche i rapporti fra Freda e De Stefano - Romeo. Io Concutelli non l'ho mai conosciuto ma dei rapporti fra quest'ultimo e i De Stefano e della loro genesi ho saputo direttamente da Paolo De Stefano».

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I «disegni oscuri» dietro la Falange armata ipotizzati già nel 1992

I giudici si soffermano poi sulla testimonianza resa nel corso del processo dall’ex ambasciatore Francesco Paolo Fulci, morto nel 2022 all’età di 91 anni. Segretario del Cesis (Comitato esecutivo per i servizi di informazione e sicurezza) tra il giugno 1991 e il marzo 1993, Fulci ha ricordato che riguardo alle attività della Falange Armata era stata aperta un’indagine su un gruppo di agenti che aveva lavorato nei servizi segreti. I giudici di secondo grado sottolineano, nelle sue dichiarazioni, un dettaglio considerato «di assoluto rilievo: tutte le telefonate di rivendicazione a nome di Falange Armata provenivano da città italiane in cui si trovano sedi operative del Sismi ed erano effettuate in orario d’ufficio».

Peraltro, risulta da una lettera che porta la data del 12 agosto 1993, «indirizzata ai vertici della Polizia di Stato, dell'Arma dei Carabinieri ed al Presidente del Consiglio, che Fulci aveva riferito dell'esistenza di correlazioni tra appartenenti e /o appartenuti al Sismi, di cui ha fornito alcuni nominativi, e la cosiddetta Falange Armata». Agli atti del processo c’è anche una nota del Sisde del 17 febbraio 1992 che ha come oggetto «un'indagine sulla Falange Armata nella quale si ritiene verosimile che “la sigla Falange sia strumentalmente adoperata inizialmente da elementi legati alla criminalità" ma non si esclude che "la grande bagarre suscitata dall’enorme diffusione rivendicativa non possa nascondere oscuri disegni o, quanto meno, essere utilizzata ai fini destabilizzanti”». Trentadue anni dopo, quei «disegni oscuri» assumono i connotati di un attacco al cuore dello Stato.