Sono passati cinquant’anni dalla fine dei moti di Reggio Calabria: era il 23 febbraio 1971 quando si mise la parola fine ad una rivolta durata ben otto mesi, una rivolta che segnò per sempre la storia della Calabria.

L'inizio della rivolta

Nel 1970 le prime elezioni regionali sanciscono la nascita di un ente rimasto lettera morta per oltre vent’anni. Nel momento in cui bisogna scegliere il capoluogo di regione della Calabria, il governo centrale decide per Catanzaro.

Reggio Calabria, da sempre la città più grande e popolosa della regione, viene lasciata al palo e ciò provoca una decisa reazione da parte dei suoi abitanti. È il 14 luglio del 1970 e, per la prima volta, dopo la seconda guerra mondiale, in una città italiana scoppia una rivolta contro il Governo centrale.

La polizia carica con violenza i dimostranti: è la scintilla che dà inizio ai Moti. Il primo morto arriva il giorno dopo, si chiama Bruno Labate, è un ferroviere di 46 anni. Da lì in avanti sarà un’escalation di violenza. Alla fine delle proteste si conteranno 11 morti e centinaia di feriti.

Per non parlare degli assalti agli uffici pubblici, alle sedi dei partiti e dei sindacati, finanche alla Questura dopo l’uccisione di un ferroviere, Angelo Campanella, da parte delle forze dell’ordine.

Destra eversiva e 'ndrangheta

Ben presto, però, la spontaneità della Rivolta si esaurisce e la direzione strategica passa nelle mani della destra eversiva e di un’organizzazione criminale che proprio in quel periodo si sta strutturando per fare il salto di qualità: la ‘ndrangheta.

Nelle stanze della politica, intanto, si gioca il futuro delle città calabresi. Reggio è quella più debole. Cosenza appoggia Catanzaro, ottenendo il primo polo universitario regionale. I politici che contano sono proprio quelli che stanno a Cosenza: da Riccardo Misasi a Giacomo Mancini. A Reggio, invece, c’è il solo Piero Battaglia, sindaco democristiano che decise di fare gli interessi della città andando contro le stesse decisioni del suo partito. Celebre il suo “rapporto alla città”, in piazza Duomo, quando invitò i cittadini a mobilitarsi per sostenere il diritto di Reggio Calabria ad essere capoluogo di regione.

Tradita dai due partiti di maggioranza, abbandonata al suo destino dalla maggiore forza di opposizione, Reggio diventa facile preda della destra. È qui che inizia il ruolo della destra.

Nata come legittima rivolta di popolo, la rivendicazione per Reggio capoluogo si trova ben presto a guidata dai missini di Francesco “Ciccio” Franco, un sindacalista della Cisnal che si mette a capo della protesta e appare agli occhi dei reggini come un difensore degli interessi della città.

Franco fa suo il motto “Boia chi molla” e fonda il Comitato d’Azione per Reggio Capoluogo. Arrestato e poi messo a piede libero, si renderà irreperibile.

Ma a Reggio Calabria, in quel periodo, c’è molto di più della semplice politica. La città dello Stretto diventa un vero e proprio laboratorio della strategia della tensione. Sono diversi i personaggi che si vedono apparire negli anni ’70. Uno su tutti è Junio Valerio Borghese, l’ex comandante fascista della X^ Mas promotore del golpe che fallirà alla fine di quello stesso 1970.

La Rivolta è l’occasione per fare le prove generali e consolidare nuove alleanze. Tramite il suo luogotenente in Calabria, il marchese Felice Genoese Zerbi, Borghese ha stretto rapporti con l’ala moderna della ‘ndrangheta reggina guidata dall’ambiziosa cosca De Stefano, guidata da Paolo De Stefano, ucciso nel 1985, e con una figura sullo sfondo: quella dell’avvocato Giorgio De Stefano. Nell’ottica di questo nuovo patto tra eversione nera e ‘ndrangheta in città passeranno in quegli stessi anni anche il fondatore di Avanguardia Nazionale, Stefano Delle Chiaie, e l’assassino del giudice Occorsio, il terrorista nero Pierluigi Concutelli.

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Paolo Romeo e Giorgio De Stefano

Sullo sfondo, però, rimane una figura che ha attraversato quegli anni ed arriva fino ad oggi, al processo Gotha. Si tratta dell’avvocato Paolo Romeo. Di lui parla il pentito Giacomo Lauro. Quando tratta dei rapporti con Paolo De Stefano, Lauro non ha dubbi: «In realtà si tratta di legami che risalgono agli anni ’70 e precisamente all’epoca della rivolta di Reggio capoluogo, quando l’avvocato Romeo militava in Avanguardia nazionale insieme a Carmelo Dominici.

Nell’occasione lo stesso avvocato Paolo Romeo si fece promotore, all’epoca, di un incontro avuto nella città di Reggio Calabria, e precisamente nel quartiere Archi tra Junio Valero Borghese ed il gruppo capeggiato allora da Giorgio De Stefano e Paolo De Stefano. Eravamo nell’estate del 1970. (…) Più volte la ‘ndrangheta fu richiesta di aiutare disegni eversivi portati avanti da ambienti della destra extra parlamentare tra cui Junio Valerio Borghese; il tramite di queste proposte era sempre l’avvocato Romeo. (…) I De Stefano erano favorevoli a questo disegno ed in particolare al programmato “golpe borghese”, mentre invece furono contrarie le cosche della jonica tradizionalmente legate ad ambienti democristiani».

I fuochi della rivolta si spengono meno di venti giorni dopo l’approvazione del pacchetto Colombo, un fiume di danari distribuito equamente fra la ‘ndrangheta dei tre mandamenti: il centro siderurgico a Gioia Tauro poi diventato porto che i Piromalli hanno sempre chiamato “Cosa mia”, la Liquichimica, nata obsoleta a Saline Joniche, ma che tanti affari ha procurato ai Iamonte e ai clan della Jonica insieme all’inutile porto insabbiato, 600 miliardi di lire del Decreto Reggio per la città dei De Stefano.

Sullo sfondo rimangono le presenze di due personaggi: Paolo Romeo e Giorgio De Stefano. A distanza di 50 anni i loro nomi continuano a riecheggiare. Entrambi sono ritenuti a capo della loggia massonico-mafiosa che ha governato le sorti di Reggio Calabria. E mentre il primo è in attesa di giudizio, il secondo ha rimediato una condanna a 15 anni in appello, proprio con l’accusa di essere uno degli “invisibili” della ‘ndrangheta, in una storia che sembra avere ancora molti capitoli da scrivere