FOTO | La stagione degli agrumi è alle porte e i principali insediamenti dei braccianti africani intorno a Gioia Tauro sono già stati dichiarati zona rossa. Il sindacato Usb denuncia: «Questione che riguarda tutti. Bisogna fare in fretta» (ASCOLTA L'AUDIO)
Tutti gli articoli di Cronaca
PHOTO
Coprifuoco notturno, didattica a distanza alle superiori, niente familiari dei degenti in reparti ed rsa, stop alle visite specialistiche non urgenti. Nel caos generalizzato della sanità calabrese, l’ordinanza del presidente facente funzioni Nino Spirlì sembra una carta jolly, giocata per prendere tempo, fermare le bocce e capire il reale stato dell'arte negli ospedali calabresi. I contagi corrono, si moltiplicano, passano dalle scuole alle famiglie, quindi dicono dalla Regione «bisogna limitare la mobilità». Rallentare tutti per decreto, limitare gli assembramenti e convertire tutti in novelle Cenerentole, da mandare a casa prima della mezzanotte. Il governo, con il nuovo dpcm va anche oltre, con lockdown soft. Peccato che ci siano zone in Calabria dove l’assembramento è naturale, obbligato, le precarie condizioni igieniche causa di forza maggiore. Eppure è lì che vivono i lavoratori che nessun decreto potrà mai fermare, perché da loro dipende che tutti gli altri abbiano frutta e verdura da mangiare. Sono gli insediamenti dei braccianti africani e ancor prima dell’inizio ufficiale della stagione degli agrumi sono già stati dichiarati zona rossa.
Non-luoghi dimenticati dalle istituzioni che il Covid ha trovato
Da anni sono non luoghi. Sepolti nelle zone industriali, nascosti fra le pieghe delle statali, cresciuti nell’anonimato di uliveti. Alcuni sono nati con la benedizione del ministero dell’Interno, come ciclica, fallimentare soluzione “temporanea” ad una situazione strutturale. Altri sono cresciuti sulle macerie di “emergenze” pregresse e negli anni consegnati all’oblio. Formali, informali, fatti di tende, baracche, ruderi ricostruiti con stracci e lamiere. Sulle mappe non esistono e solo l’esperienza sa dare a tutti un nome, un luogo. Le istituzioni li hanno ignorati salvo poi ricordarsene in caso di omicidi, roghi, tragedie, il Covid-19 invece li ha trovati. I numeri sono parziali e datati, ma bastano già a dare il quadro della situazione. Venti braccianti su circa 120 abitanti positivi al Covid19 al campo container, lì dove è stato isolato il primo cluster, 14 braccianti su circa 260 ospiti alla tendopoli positivi. Fin qui, le note ufficiali. In realtà, dicono gli operatori, la situazione di promiscuità in cui i braccianti vivono è tale da dover considerare tutti positivi, salvo miracoli o rare eccezioni. Risultato, nel giro di pochi giorni, entrambi gli insediamenti sono stati dichiarati zona rossa. Ma per gli abitanti – tutti - quel provvedimento si è tradotto solo nel divieto di lasciare il campo.
Zona rossa o polvere sotto il tappeto?
Per i positivi, l’isolamento significa solo il trasferimento in un paio di tende messe in piedi accanto a quelle esistenti o nei pressi dei container. Nelle stesse condizioni igienico-sanitarie precarie di sempre, ovviamente. I bagni no, quelli sono gli stessi per tutti. Assistenza medica? Nessuna. «Solo dopo ripetute segnalazioni siamo riusciti a far trasferire in ospedale un abitante della tendopoli gravemente malato e cardiopatico. Per ottenere questo risultato abbiamo dovuto rivolgerci al consigliere regionale Anastasi che ringraziamo per il tempestivo intervento» ha denunciato in settimana l’Usb. Certo, c’è la Croce rossa in caso di emergenze, ma nessun monitoraggio viene fatto sui positivi. Chi non è stato testato o è risultato negativo al tampone invece è stato semplicemente condannato ad aspettare, tra la paura del contagio e la frustrazione per l’inattività forzata, in un recinto di tende o container diventati baracche.
Non c’è altro negli insediamenti dei braccianti. Non uno spaccio, una bottega. Da fuori arrivano olio, riso, scatolame. Medicine se servono. Per quanto ancora non è dato sapere. «L’attività di screening prevista sui soggetti presenti nell’area interessata non è stata ad oggi completata» ha ammesso candidamente il dipartimento di Prevenzione dell’Azienda sanitaria provinciale di Reggio Calabria. Risultato, altri dieci giorni di zona rossa al campo container e nessuna strategia a medio o lungo termine.
I “fantasmi” dei campi
A Rosarno, la notizia è stata accolta senza proteste. E non certo perché non sia un problema. Non lavorare significa non avere soldi per comprare cibo, vestiti, beni di prima necessità, non avere nulla da mandare a casa, che poi è il vero motivo per cui molti accettano vivere in condizioni ai limiti della sostenibilità. Ecco perché molti hanno lasciato il campo appena la zona rossa è stata dichiarata. Altri hanno imparato ad approfittare di un’area impossibile da controllare completamente per continuare a lavorare ogni giorno. Quanti? Impossibile saperlo. La regolarizzazione prevista dal decreto Rilancio si è rivelata un fallimento. In un settore in cui lavoro nero o grigio sono la norma e non l’eccezione, pochissimi sono stati in grado di presentare giornate sufficienti o contratti validi per accedere alla sanatoria. I più sono rimasti fantasmi, senza diritti, assistenza medica, residenza. Facili prede anche di quei caporali che inondano whatsapp e social di interessati messaggi con cui giurano che «il Covid è una malattia dei bianchi» e le zone rosse «solo un modo di avere maggiori fondi dall’Unione Europea». O di minacce, neanche troppo velate. Mancare alla ripetuta “convocazione” di un caporale significa rischiare di non essere più chiamati. Con la stagione degli agrumi alle porte e un esercito di braccianti in arrivo è un rischio che nessuno vuole correre. D’altra parte, anche chi ha documenti regolari rischia di rimanere senza alcun tipo di reddito. In teoria, chi sta in quarantena ha diritto all’indennità di malattia. Ma tra la teoria e la pratica ci sono un contratto e la possibilità di dimostrare 51 giornate lavorative. «Peccato che spesso se non sempre, quelle dichiarate non sono neanche la metà di quelle effettive» dicono i sindacalisti dello sportello Soumaila Sacko, che nei mesi scorsi hanno supportato i braccianti anche nelle richieste di bonus o reddito di emergenza. «Ci siamo trovati di fronte buste paga ridicole, in un caso addirittura con saldo negativo». Surreale, se non fosse tragico.
Il conto di ritardi e indifferenza
Ed è anche per questo che alla tendopoli, dove la zona è presidiata e l’intero perimetro controllato, sono scoppiate le proteste, più volte degenerate in sassaiole. Da lì è assai difficile dileguarsi. Lo fanno in pochissimi, spesso per non tornare. «Questa è la logica conseguenza di un approccio parziale, emergenziale e miope. E adesso le condizioni del campo sono anche peggiorate e quelle di chi ci vive altrettanto» dice il sindaco di San Ferdinando, Andrea Tripodi, negli anni ciclicamente lasciato con il cerino in mano della gestione di un insediamento nato come temporaneo e diventato strutturale. In teoria, avrebbe dovuto essere una soluzione di qualche mese, massimo una stagione. Per superare il vecchio ghetto prima, per rispondere allo sgombero di un capannone poco dopo, per accogliere chi aveva perso tutto in uno dei tanti roghi nella baraccopoli. In teoria, amministrazioni regionali di diverso colore «stavano lavorando ad una soluzione». Ma neanche i mesi del lockdown hanno convinto istituzioni locali e nazionali a superare quelle tende sbrindellate e dare risposte a quei lavoratori che anche la pandemia non ha mai fermato perché motore necessario della filiera che assicura i beni primari. Senza di loro, non c’è cibo che arrivi sugli scaffali e nei mercati. Quando la fase 2 è iniziata, le rotte del lavoro nei campi li hanno portati in altre regioni e la Regione ha preferito fare spallucce, distribuire un po’ di spicci, ma zero strumenti di screening per le cliniche mobili e dimenticare il problema. Ma adesso la stagione sta iniziando, non c’è giorno in cui alla stazione di Rosarno non arrivi qualcuno, mentre padroni e padroncini delle aziende agricole tempestano di chiamate i caporali, chiedendo loro di formare le squadre.
«Un problema di tutti»
«Questo non è un problema semplicemente sanitario o di ordine pubblico, questo non è un problema di accoglienza, perchè parliamo di lavoratori,questa è una questione strutturale che riguarda tutti» dicono i sindacalisti di Usb. Tra i braccianti di San Ferdinando, con lo sportello Soumaila Sacko, intitolato al loro delegato ucciso a fucilate a San Calogero nel 2018, ci lavorano da anni. E hanno ben chiara la situazione. «La ragione di tensioni e intemperanze è da ricercare in primo luogo nelle preoccupazioni di sussistenza in periodo di quarantena forzata. Inutile ribadire che molti di questi braccianti lavorano in nero, ma anche chi ha un contratto di lavoro ha difficoltà a chiedere indennità di malattia perché sono pochissimi i casi in cui le giornate vengono interamente dichiarate, dunque loro sono in grado di soddisfare i requisiti». E poi, c’è la paura del contagio. La mancanza di reale separazione di positivi e negativi sta preoccupando molti. Fin dai mesi del lockdown, i sindacalisti Usb, insieme ad altre organizzazioni che lavorano sul territorio come Medu o Mediterranean hope, hanno chiesto soluzioni, hanno denunciato il fallimento della regolarizzazione, hanno avvertito che quelle politiche miopi avrebbero avuto conseguenze drammatiche in caso di una seconda ondata di contagi. Parole al vento. «La nostra richiesta di istituire un fondo di garanzia per gli affitti è rimasta lettera morta, le case costruite a Rosarno rimangono ancora chiuse, mentre di altre soluzioni, a partire dai progetti Supreme –denunciano - si sente parlare solo per le enormi cifre». E quest’autunno, ci sono volute settimane di richieste prima di ottenere un incontro in Prefettura.
Corsa contro il tempo
Tre sono le richieste principali portate al tavolo: un’indennità di quarantena per garantire una forma di reddito ai lavoratori della terra obbligati all’inattività forzata perché in zona rossa, strutture per isolare i positivi e il superamento di tendopoli e ghetti. Sul piatto poi, rimane la questione posta fin dai tempi del lockdown: una regolarizzazione vera per i lavoratori della terra, obbligati all’irregolarità da un sistema in cui nero e grigio sono regola e non eccezione. E la squadra del prefetto Mariani sembra aver recepito. «Si è impegnato a trasmettere al Viminale la nostra richiesta di un reddito di quarantena» informano dal sindacato. Il resto dei punti dovrà invece essere discusso in una riunione che a breve verrà convocata in prefettura con associazioni datoriali, sindaci dei Comuni interessati e l’assessore regionale al Welfare e all’Agricoltura Gianluca Gallo. «E speriamo vivamente che venga chiamata a partecipare anche la Grande distribuzione organizzata – puntualizzano da Usb – vera deus ex machina della filiera agricola, nonché principale causa dello sfruttamento per lavoratori e piccoli contadini». Ma tocca fare in fretta. «La nuova stagione agrumicola è ormai iniziata e la presenza di lavoratori stranieri sta aumentando rapidamente. È bene che ci si sbrighi a trovare soluzioni adeguate perché, in un’epoca di pandemia come quella in cui stiamo vivendo, non è problema dei soli “neri” ma è problema di tutti».