La parabola del boss di Cosa Nostra: dal lusso della giovinezza alla spavalderia della latitanza. In mezzo stragi, omicidi, amori e quel rapporto controverso con la vita, Dio e la Chiesa. L’ultima sfida allo Stato poco prima della morte
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«Oggi vivo per come il fato mi ha destinato, mi preoccupo soltanto di essere un uomo corretto, ho fatto della correttezza la mia filosofia di vita e spero di morire da uomo giusto, tutto il resto non ha più valore». Chissà se, anche dinanzi alla giustizia divina, Matteo Messina Denaro sarà stato davvero intimamente convinto di essere morto da uomo giusto, come scriveva nel lontano 1 febbraio 2005 in una lettera a firma “Alessio”.
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Oggi che l’ultimo stragista è deceduto a causa del tumore che lo ha colpito diversi anni addietro, forse, quel velo di ipocrisia con il quale ha convissuto in tutto questo tempo è definitivamente caduto sull’altare di una verità troppo spesso sporcata dalla menzogna.
Per 30 anni, Matteo Messina Denaro è stato considerato uno dei più importanti latitanti italiani. Forse il più ricercato al mondo. Eppure, quando lo hanno arrestato, era proprio lì, in quella Palermo sulla cui parte criminale ha esercitato da sempre grande carisma, ma che non ha mai davvero comandato. Perché “u siccu”, bisogna dirlo, capo di Cosa Nostra non lo è mai stato.
Le origini e il grande rimpianto
Nato a Castelvetrano, in provincia di Trapani, nel 1962, è da sempre un boss atipico per i protocolli di Cosa Nostra. Contrariamente a quell’aspetto quasi trasandato di gente del calibro di Riina e Provenzano, Messina Denaro va in giro sulla Porsche, veste capi di marche d’alta moda e non rinuncia neppure al Rolex. Tutto in barba alla regola che vieterebbe l’ostentazione della ricchezza. Nonostante ciò, a cotanta dimostrazione di lusso non corrisponde una sufficiente determinazione nel terminare gli studi. L’istituto commerciale di Castelvetrano non lo vedrà mai diplomarsi. E per lui è un rimpianto. In una lettera recuperata dalla polizia nel 2015 e riportata nel libro “L’invisibile” di Giacomo Di Girolamo, si legge: «Io qualche rimpianto nella mia vita ce l’ho, il non avere studiato è uno di essi. È stato uno dei più grandi errori della mia vita, la mia rabbia maggiore è che ero un bravo studente solo che mi sono distratto con altro».
Non è difficile immaginare con cosa Messina Denaro si possa essere distratto, considerato il tenore di vita che conduce fino al momento della sua latitanza e forse anche oltre, come dimostrato dalle numerose indagini che lo hanno riguardato.
L’attentato a Germanà: l’inizio della latitanza
Messina Denaro finisce per la prima volta sotto la lente dell’antimafia di Palermo nel 1989. È il giudice Paolo Borsellino ad approfondire la figura del figlio di don Ciccio, il boss di Castelvetrano. Quel legame così forte con i corleonesi non può passare inosservato agli occhi di un magistrato arguto come Borsellino. Non è un caso che di lui inizi ad occuparsi un investigatore di razza, Rino Germanà, commissario di polizia proprio nel centro trapanese. Ma sentire addosso il fiato degli “sbirri” per un mafioso come Messina Denaro è un affronto che non ci si può permettere. Così, per Germanà, arriva la sentenza di morte: un commando composto dallo stesso Messina Denaro, da Leoluca Bagarella e Giuseppe Graviano intercetta il poliziotto sul lungomare di Mazara del Vallo. La missione non va come sperano i killer. Germanà esce dall’auto e si getta in mare dopo aver risposto al fuoco. Il mitra di Bagarella s’inceppa e l’agguato fallisce. È il momento in cui Messina Denaro diventa invisibile o quasi: solo rarissime apparizioni fino al 2 giugno 1993, quando viene dichiarato ufficialmente latitante. Da lì, “diabolik” sarà un fantasma che, però, farla parlare non poco di sé.
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Messina Denaro, le donne e la nascita della figlia
C’è un vero punto debole nella storia di Messina Denaro. Uno di quelli che rischia – più di una volta – di mandare all’aria coperture di primo livello ed una struttura complessa che ne garantisce la latitanza. Si tratta del rapporto del boss con le donne.
Matteo Messina Denaro non pensa mai di poter avere una famiglia come è stato per Riina, Provenzano o Bagarella. Ha sempre e solo compagne e fidanzate. Ad una di loro, Sonia, durante la latitanza scrive: «Non voglio nemmeno pensare di coinvolgerti in questo labirinto da cui non so come uscirò per il semplice fatto che non so come e quando ci sono entrato. Non pensare più a me, non le vale la pena». In un’altra occasione, invece, quando il direttore dell’albergo dove lavora la sua compagna dell’epoca fa capire alla donna che quegli uomini che vanno a trovarla non sono per nulla graditi, tutto si risolve alla maniera mafiosa: con l’omicidio del direttore stesso, Nicola Consales.
Un’altra fidanzata, datata al 1995, gli scrive di volergli regalare la cassetta di un videogioco. È proprio seguendo Maria Mesi che le forze dell’ordine arrivano ad un passo dalla cattura del boss. Quando giungono nel suo covo, però, è già andato via. Come tante, troppe volte succede in questi trent’anni. Poi, tra il 1995 ed il 1996 la relazione che forse più di tutte segna la vita di MMD, quella con Franca Alagna, da cui è nasce la figlia Lorenza. Proprio colei che, poche settimane fa, ha deciso di cambiare il suo cognome con quello del padre, Messina Denaro. Un gesto di distensione dopo anni di distanze e parole durissime del boss che la definì “degenerata” proprio per la sua volontà di tenere un certo distacco dalla vita del padre.
Il sistema dei pizzini e la rete di famiglia
Ma come fa un boss a mantenere le redini del comando per così lungo tempo senza incappare in un errore? Semplice: per governare un territorio come il trapanese è necessario avvalersi di una fitta rete di fiancheggiatori, preferibilmente legati alla famiglia. E MMD ha potuto contare per decenni su familiari fidati, come la sorella Patrizia, anch’ella condanna per associazione mafiosa e che ha svolto il ruolo di “postina” veicolando le informazioni da e per il carcere con gli altri mafiosi detenuti.
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Messina Denaro utilizza, nei trent’anni di latitanza, quasi solo pizzini. Lo fa per impartire ordini, prendere decisioni e fare affari. Come successo con l’ex sindaco di Castelvetrano, Antonio Vaccarino (chiamato Svetonio), persona con cui vi è un rapporto epistolare, interrotto nel momento in cui il boss scopre che si tratta di una persona che lavora per il Sisde. Anche nel covo di Provenzano, il giorno dell’arresto del 2006, viene trovato un pizzino di Messina Denaro in cui si chiariscono gli affari con Vaccarino, al quale viene raccomandato di «condurre una vita trasparente in modo da non essere coinvolto nelle indagini». Chiaro il rischio che, attraverso Vaccarino, si possa giungere a MMD.
Il coinvolgimento nelle stragi
È certamente con il periodo delle stragi che la carriera e l’importanza di Messina Denaro sale notevolmente di livello. «Con le persone che ho ammazzato io, potrei fare un cimitero», confida ad un amico. E per certi versi ha anche ragione. Secondo la ricostruzione degli inquirenti, ci sarebbe proprio Messina Denaro, tra gli altri, al vertice voluto da Totò Riina, nell’ottobre del 1991, in cui viene pianificata la morte di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Soprattutto il primo, deve essere ucciso a Roma. E in quel commando, secondo i pentiti, c’è anche Messina Denaro che prende parte ai sopralluoghi ed ai pedinamenti. Da Palermo, però, arriva lo stop all’azione che viene rinviata in terra siciliana e culmina con la strage di Capaci. Proprio di recente, dopo il suo arresto, viene diffuso un audio in cui il boss, nel 2022, impreca per il traffico nel giorno della commemorazione delle vittime dell’attentato: «Io sono qua, bloccato, con le 4 gomme a terra. Cioè non nel senso di bucate, ma bloccate perché sono sull’asfalto e non mi posso muovere. Per le commemorazioni di ‘sta m… Porco mondo». Più avanti, davanti ai magistrati negherà di aver voluto insultare Falcone, ma di essere stato solo arrabbiato per il traffico.
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All’epoca MMD non è neppure latitante. Motivo in più per potersi muovere liberamente. Così ha un ruolo anche nelle stragi del 1993 a Roma, Firenze e Milano, per le quali viene condannato all’ergastolo. Alla fidanzata dell’epoca non risparmia una certa vena sarcastica: «Sentirai parlare di me, mi dipingeranno come un diavolo, ma sono tutte falsità».
Il ruolo nell’omicidio Di Matteo e la sua vigorosa difesa
Non si sbaglia, Messina Denaro. Come un diavolo viene dipinto con riferimento all’omicidio del piccolo Giuseppe Di Matteo, figlio di Santino, uomo d’onore appartenente alla famiglia di Altofonte, vicina ai corleonesi. Il 4 giugno del 1993 Santino viene arrestato e ben presto decide di collaborare con la giustizia: davanti ai pm Giuseppe Pignatone e Francesco Lo Voi si accusa di oltre dieci omicidi e confessa di aver partecipato anche alla strage di Capaci. Le parole del nuovo “pentito” scuotono Cosa Nostra dalle fondamenta. È a conoscenza di segreti inconfessabili, bisogna fermarlo. Ci provano in tutti i modi i mafiosi palermitani, senza successo. Così arriva l’ultimo tentativo. Quello per il quale sono certi che il risultato arriverà: rapire il piccolo Giuseppe, figlio di Santino e tappargli la bocca per sempre. L’11 gennaio 1996 il piccolo Giuseppe viene ucciso dopo la drammatica frase di Giovanni Brusca: «Alliberateve de lu cagnuleddu». Anche Messina Denaro viene condannato all’ergastolo. Interrogato dopo l’arresto, si difende con forza negando ogni responsabilità: «Mi ascolti, mi possono mettere in croce nella vita, mi sta pure bene, non ho niente da recriminare a nessuno, ma io il bambino non l’ho ucciso e mi dà fastidio ‘sta situazione. Forse è la cosa a cui tengo di più».
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Il rapporto con la Calabria
Messina Denaro ha da sempre un rapporto privilegiato con la Calabria. Non tanto e non solo per la partecipazione delle cosche calabresi alla strategia stragista, quanto per l’assistenza fornitagli nel periodo di latitanza nei territori compresi tra Lamezia Terme e Cosenza. Un periodo durato alcuni anni e diverso dai luoghi nei quali era abituato, tra agi e fasto. La Calabria è più aspra e difficile. Questo Messina Denaro lo sa bene. Ma non si arrende e mette in piedi affari legati alla droga, ai progetti dell’eolico e ad un villaggio turistico. C’è anche un’intercettazione del settembre 2016 in cui i suoi fedelissimi ne parlano: «Dice che Matteo era in Calabria ed è tornato». Una terra sicura, la Calabria. Uno di quei luoghi in cui MMD si sente a casa.
«Non mi pentirò mai. Non potevo fare come Provenzano»
Dopo l’arresto avvenuto lo scorso gennaio, Messina Denaro vuole mettere le cose in chiaro, rasserenando i tanti che temono una sua collaborazione con la giustizia: «Dottore De Lucia, io non mi farò mai pentito», dice al procuratore di Palermo che l’ha arrestato.
Tante e tali sono le coperture di cui ha goduto che tutto un mondo fatto di pezzi di Stato e massoneria deviata, professionisti e insospettabili trema all’idea che possa parlare perché malato. Ma lui rassicura: «Io non le faccio queste cose». Anche su eventuale documentazione, non cambia idea: «Qualora ce le avessi non le darei mai, non ha senso per il mio tipo di mentalità».
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Il paragone con Provenzano, come nel resto della sua vita, non regge: «Non posso fare alla Provenzano, dentro la casupola in campagna con la ricotta e la cicoria, con tutto il rispetto per la ricotta e la cicoria, ma io dovevo uscire, dovevo mettermi in mezzo alle persone, “… perché più mi nascondo, più sono arrestato”, mi spiego? Cioè ho piantato l’albero in mezzo alla foresta, che erano le persone. Da quel momento, io mi sono messo a fare la vita da libero».
L’ultima sfida allo Stato
Anche malato e con un’aspettativa di vita molto breve, MMD non si rassegna e sfida di nuovo lo Stato: «Non voglio fare né il superuomo e nemmeno arrogante: voi mi avete preso per la malattia, senza la malattia non mi prendevate», dice al procuratore De Lucia. Così come aggiunge che «se voi dovete arrestare tutte le persone che hanno avuto a che fare con me a Campobello, penso che dovete arrestare da due a tremila persone: di questo si tratta».
Cosa rimane di Messina Denaro?
Ma cosa rimane dell’esistenza di Matteo Messina Denaro? Forse è in una sua lettera il senso più forte di ciò che credeva di essere il boss. Ecco il passo più importante: «Jorge Amado diceva che non c’è cosa più infima della giustizia quando va a braccetto con la politica ed io sono d’accordissimo con lui. In quanto alla morte credo di avere avuto un rapporto particolare con lei, mi è sempre aleggiata intorno e so riconoscerla, da ragazzo la sfidavo con leggerezza per via dell’incoscienza giovanile, oggi da uomo maturo non la sfido, più semplicemente la prendo a calci in testa perché non la temo, non tanto per un fattore di coraggio, ma più che altro perché non amo la vita, teme la morte chi sta bene su questa terra e quindi ha qualcosa da perdere, io non ci sono stato bene su questa terra e quindi non ho nulla da perdere, neanche gli affetti perché li ho già persi nella materia già da tanti anni. Spero solo di riuscire a portare a termine ciò che mi sono prefissato prima di andare via, ci sono ancora pagine della mia storia che si devono scrivere, non saranno questi “buoni ” e “integerrimi” della nostra epoca, in preda al fanatismo che riusciranno a fermare un uomo come me».
In un pizzino del 2013 ne ha anche per la Chiesa. Pensando alla sua morte, afferma di non volere funerali in chiesa: «Rifiuto ogni celebrazione religiosa perché fatta di uomini immondi che vivono nell’odio e nel peccato». E ancora: «Non sono coloro che si proclamano i soldati di Dio a poter decidere e giustiziare il mio corpo esamine, non saranno questi e rifiutare le mie esequie (…) Dio sarà la mia giustizia, il mio perdono, la mia spiritualità». Parole che, forse, andranno bene per i (pochi) preti con cui Messina Denaro ha intrattenuto rapporti e che hanno piegato la fede al credo mafioso. Ma è evidente come il boss vedesse quale fumo negli occhi una chiesa vissuta alla maniera di don Puglisi. Più di decine di magistrati messi insieme.
Non sappiamo se anche nell’ultima ora Messina Denaro sia riuscito a riconoscere la morte. Di certo, alla fine, essa – come per ogni umano – ha preso il sopravvento. Tuttavia, proprio quelle verità di cui MMD era custode rappresentano l’occasione persa per scrivere le pagine che lui riteneva che dovessero essere ancora riempite. Tenendo per sé le verità su ciò che è stato, specie in relazione alle complicità istituzionali ed esterne a Cosa nostra, Messina Denaro non ha preso a calci in testa la morte, ma, al contrario, è stato lui a farsi prendere a calci da quel mondo sommerso in cui ha vissuto e che da oggi, senza più la sua “minaccia”, potrà continuare a vivere più leggero, dimenticandosi di lui in un batter di ciglia. Così muore l’ultimo degli stragisti: senza lasciare alcun segno e ben lontano da quella speranza di «morire da uomo giusto» che nutriva ben prima della malattia.