«Dottore Lombardo, ho un nuovo memoriale pronto con tutti i nomi che ho raccolto. Glielo darò al momento opportuno». È con questo colpo ad effetto che il pentito Nino Lo Giudice strappa al procuratore aggiunto, Giuseppe Lombardo, un sorriso appena accennato. Il collaboratore di giustizia, nel corso della sua lunga deposizione odierna, narra dei fatti oggetto del processo, ma spazia anche oltre.

Le minacce di “faccia di mostro” e la bomba

Come quando, ad esempio, parlando di Giovanni Aiello “faccia di mostro” afferma che questi, nel corso del loro ultimo incontro, lo minacciò: «Di lui non ho parlato nel corso dei 180 giorni perché avevo paura. Mi ha minacciato dicendomi di stare attento a quello che faccio perché mi avrebbe trovato ovunque, anche in carcere. Mi disse che non avrei dovuto fare il suo nome». In verità, nella ricostruzione di Lo Giudice, c’è spazio anche per un riferimento ad Aiello concernente i rapporti del “nano” con i magistrati Cisterna e Mollace. Dopo aver ricordato che Aiello era molto interessato ai rapporti di Luciano Lo Giudice con i due pm, il pentito ricorda che “faccia di mostro” si mostrò sospettoso per l’allontanamento dei togati. «Io dissi ad Aiello che Cisterna e Mollace si erano lavati le mani per quanto riguardava mio fratello Luciano che era stato arrestato. Gli raccontai cosa stava succedendo e lo misi a conoscenza. Mi disse di fare come ritenevo più opportuno e che se avessi avuto bisogno di lui sarebbe stato a disposizione». Aiello, però, non prese parte ad alcuna fase riguardante gli attentati in procura generale.

La paura dei carabinieri

Lo Giudice ricorda anche quando si allontanò dal luogo in cui era sotto protezione. Troppa la paura per quanto era successo un giorno, allorquando egli fu prelevato da alcune persone qualificatesi come carabinieri. Fu trasbordato su una Punto prima e su una Fiat Bravo marrone poi. All’interno alcune persone, che non si identificarono, gli dissero a chiare lettere: «Lei cosa vuole fare? Deve ritrattare tutto, altrimenti finisce male. Lei a Giovanni Aiello lo deve cancellare della memoria. Sappiamo dove abita, dove venirla a trovare». Il pentito ricorda: «C’erano dei lampeggianti su quell’auto. Avevano le pistole e i telefoni satellitari». Solo una volta tornato a casa, Lo Giudice decide di lasciare Macerata e chiama i suoi familiari avvisandoli di stare attenti ai carabinieri e, se in pericolo, chiamare la Polizia. Il suo peregrinare è lungo, fino al mesto ritorno a Reggio Calabria dove trova ospitalità da Stella Baccillieri. Successivamente poi l’arresto da parte della Squadra mobile.

La massoneria deviata

«Nel secondo memoriale c’erano cose criptate. Non potevo dire tutto perché mi dovevo difendere da quello che dicevano di me pentiti, magistrati, avvocati, carabinieri. Quel memoriale fu scritto a Reggio Calabria. Lo scrissi perché volevo scoperchiare il marco che c’è a Reggio ed in Italia. In tutti i posti vi sono massoni e servizi segreti deviati». Ma come vengono fuori i nomi dei memoriali? «A Rebibbia incontrai Cosimo Virgiglio che mi fece dei nomi, che io sapevo già fossero massoni. Li appresi anche da Pasquale Condello e da altre persone come mio padre, Cosimo Moschera, Giovanni Chilà, Carmelo Murina. Tante persone che, nel tempo, s sono unite tutte in una cosa. Quello che ho scritto è la decima parte. Ne ho un altro che ho messo in un posto, poi glielo darò», dice rivolgendosi al pm Lombardo.

Gli agguati ai carabinieri

Quanto al tema centrale del processo, ossia gli agguati ai carabinieri, Lo Giudice riferisce di aver saputo dettagli da Giuseppe Villani e suo figlio Consolato, autore materiale del delitto e oggi collaboratore di giustizia. «Una prima volta ci incontrammo a Vigevano e Giuseppe Villani – che Lo Giudice ritiene appartenere alla categoria dei riservati della ‘ndrangheta – mi fece una panoramica generale. Poi, durante un nuovo incontro a Reggio, mi disse che fra il 1993 e il 1994 erano stati chiamati Giuseppe Villani, Santo Calabrò, Giuseppe Calabrò e un altro personaggio che non ricordo. Ci fu una riunione ad Oppido Mamertina, nella casa del figlio di Rocco Filippone. Lì hanno iniziato a fare un discorso sugli attentati ai carabinieri. Giuseppe Villani mi raccontò che, in cambio di quello che i siciliani volevano, gli davano armi e droga. Hanno portato a termine un massacro. Giuseppe Villani era coinvolto e sapeva. Ne era a conoscenza. Lui ha trattato con Rocco Filippone. Lui e Santo Calabrò». Parole che Lo Giudice dice gli siano state confermate poi anche da Consolato Villani. «Mi raccontò come avvenne l’agguato a Scilla, dicendo che erano sull’autostrada e avevano la gazzella davanti e decisero di affiancarla, sparare i primi colpi e poi scendere dall’auto e sparare contro i carabinieri. Dopo l’attentato Villani fece una telefonata rivendicando come Falange armata». Il racconto di Lo Giudice si sposta pure all’agguato a Saracinello: «Mi raccontò che erano a casa dei Calabrò, che c’era una scala di legno. La casa confinava con una concessionaria di auto che si affacciava sulla 106. Quando arrivò la prima gazzella iniziarono a sparare».

 

Ma quella di Oppido non fu l’unica riunione. Ce ne fu una seconda cui parteciparono anche i Graviano «mandati da Totò Riina e Provenzano, con l’obiettivo di iniziare a colpire i carabinieri. Partecipò anche Giuseppe De Stefano, nella sua qualità di capocrimine. Per i calabresi c’erano, oltre a De Stefano, Rocco Filippone, Giuseppe Piromalli, Marcello o Giuseppe Pesce. Filippone era importante perché rappresentava la Piana per conto dei Piromalli». Sull’aiuto da dare ai siciliani, Lo Giudice ricorda che si sarebbe espresso anche De Steano: «Disse che erano disponibili ad appoggiarli sia finanziariamente che logisticamente. Ma nessuno doveva sapere dell’aiuto dei reggini, doveva rimanere una cosa strettissima. E i killer non dovevano essere legati a nessuno, per evitare possibili pentimenti».

 

LEGGI ANCHE: