'Ndrangheta stragista, il pentito: «Cosa nostra appoggiò Forza Italia, i Radicali e Martelli»

La deposizione di Pasquale Di Filippo sui rapporti con la politica: «In Sicilia un partito non sale se non votato dalla mafia». Giallo sul collaboratore Pulito: è irreperibile

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di Consolato Minniti
9 novembre 2018
12:53

«Cosa nostra, oltre Forza Italia, ha appoggiato anche i radicali e il politico Martelli. In Sicilia non sale un partito se non è d’accordo con la mafia. Certo, può succedere che salga un partito che non è d’accordo con la mafia, ma loro metteranno sempre un infiltrato lì dentro. Quindi non cambierà mai. È sempre stato così. Da quando sono nato e ho convissuto con la mafia, c’è sempre stata la politica di mezzo. Fino a quando ci sarà la mafia non ci sarà mai una politica senza mafia». È il pentito Pasquale Di Filippo a parlare così nell’udienza del processo ‘Ndrangheta stragista, in corso alla Corte d’Assise di Reggio Calabria, che vede sul banco degli imputati il boss Giuseppe Graviano e Rocco Santo Filippone, accusati di essere i mandanti degli agguati ai carabinieri in Calabria nel periodo delle stragi.

Marino Cosimo Pulito irreperibile

L’udienza si apre con una prima importante notizia: il pentito Marino Cosimo Pulito è irreperibile. Trattasi di un collaboratore di giustizia un tempo pezzo da novanta della Sacra Corona Unita, che avrebbe dovuto riferire sulle dinamiche che hanno portato ai rapporti fra Cosa nostra, ‘ndrangheta e Scu nel periodo delle stragi. Citato dal procuratore Lombardo, Pulito – come da comunicazione del servizio centrale di protezione – è risultato non reperibile. Bisognerà capire le ragioni che hanno portato il pentito a sparire dalla circolazione, senza farsi trovare nel luogo in cui viveva.


«Così feci arrestare Bagarella»

Subito dopo ecco l’inizio della deposizione di Pasquale Di Filippo, la cui collaborazione inizia nel 1995. «Sono stato fermato dalla Dia a Palermo – spiega il pentito – e mi hanno portato nei loro uffici, dove mi hanno comunicato che mio fratello Emanuele stava collaborando con la giustizia. Ho dovuto prendere decisione: andare in carcere o collaborare. Ho deciso di collaborare e ho detto subito cosa dovevano fare per arrestare Bagarella. Dopo due giorni è stato arrestato. Io mi incontravo spesso con lui, con Matteo Messina Denaro e altre persone molto importanti che ho fatto arrestare». Come avviene l’arresto? «Ho detto che l’autista di Bagarella era Tony Calvaruso e bastava seguirlo per prenderlo, come poi è avvenuto».

Il primo a parlare di stragi

Ma Di Filippo – così come lui stesso riferisce – è stato anche il primo a parlare delle stragi. Nel 1995 sono il primo collaboratore che parla di queste cose. All’epoca – ricorda – nessuno sapeva niente su mandanti ed esecutori delle stragi di Roma, Firenze e Milano, così come su una cinquantina di omicidi. Ho detto chi è stato a fare le stragi, a uccidere padre Puglisi. Ho riferito che era stato Grigoli, all’epoca persona incensurata e che aveva pure il porto d’armi».

«Io, uomo d’onore riservato»

Il racconto del collaboratore si sposta poi sul suo vissuto prima di essere “battezzato” come uomo d’onore riservato. Una categoria d’élite che pochi potevano vantare. «Ho fatto cose più delicate e importanti non essendo uomo d’onore rispetto a quando lo ero. Perché per far parte di Cosa nostra non si deve essere per forza uomo d’onore. Sono stato dieci anni senza esserlo, ma facevo, ad esempio, da tramite fra carcere e fuori, muovevo i beni dei mafiosi, partecipavo a riunioni mafiose con mio suocero. Nel 1994 divento uomo d’onore riservato, perché Bagarella ha voluto così. Nessuno doveva sapere niente di me, tranne lui Messina Denaro, Mangano, Grigoli, Calvaruso e Pizzo. Mi si dice che faccio parte di un gruppo di fuoco, però dovevamo essere solo in pochi a saperlo». Il collaboratore rimarca che con Bagarella parlava quasi solo di omicidi e nessuno doveva sapere nulla di ciò che facevano, tranne quelle pochissime persone selezionate. Qualcosa però va storto. «Dopo un po’ di tempo quelli che facevano parte del gruppo di Brancaccio mi hanno conosciuto ed è caduta la mia riservatezza».

«Provenzano non contava nulla»

Di Filippo conferma quel che anche altri collaboratori, prima di lui, hanno riferito. Ossia che all’interno di Cosa nostra, subito dopo la caduta del “capo dei capi” Totò Riina, a subentrare nel potere vero fu Leoluca Bagarella e non Bernardo Provenzano. Di Filippo è chiarissimo: «Provenzano non contava niente nei confronti di Bagarella. Se io dicevo qualcosa a lui, prendeva lui le decisioni». Addirittura, aggiunge il pentito, i capi mandamento davano del “Vossia” a Bagarella in segno di assoluto rispetto. «E se a lui non andava bene qualcosa li faceva fuori».

I rapporti con la politica

Emblematico è il racconto di ciò che accadeva quando di mezzo c’era la politica. «Mio suocero – narra il collaboratore – era detenuto a Pianosa, dopo la strage di Falcone e Borsellino. Io andavo a colloquio. Non erano trattati bene, stavano male, subivano percosse e volevano che si togliesse il 41 bis e chiudesse il carcere di Pianosa. In un incontro con Bagarella, gli dico “Scusa, Luca noi abbiamo votato Berlusconi, con la promessa che ci doveva aiutare, perché non ci ha aiutato? Perché tutti stanno a morire?”. E lui mi ha detto “Lassalu iri, poi quando può ci aiuta”». Di Filippo però sottolinea anche che «in questo discorso, io non sono attendibile. Lo sono per tutto il resto». Poi prosegue: «Certo, conosco Berlusconi perché tutta la mafia si è adoperata per far salire loro, perché ci doveva aiutare. Dal carcere mi hanno comunicato chi dovevo votare». E precisa ancora: «Se un politico si mette d’accordo con un boss, non è un patto? Bagarella non mi ha parlato esplicitamente di patto. Io ho detto a lui che l’avevamo votato e doveva mantenere gli impegni. Lui mi ha risposto che non poteva fare niente perché c’erano altri politici che lo stavano osservando, ma appena poteva ci aiutava». Quanto ai tempi degli accordi, Di Filippo non ha dubbi: «Se ci sono elezioni nel ’94, nel ’93 si sa già chi dobbiamo votare».

I legami con la ‘ndrangheta

Alla domanda del procuratore Lombardo, sui rapporti con la ‘ndrangheta, il pentito chiarisce che sì, si parlava spesso dei calabresi soprattutto con riferimento all’acquisto delle armi. «Loro sono sempre stati forti in questo settore. Avevano mitragliette che noi non avevamo. Erano loro quelli più importanti». Calabresi che chiesero un favore ai siciliani: «Doveva arrivare una grossa partita di droga e hanno voluto l’appoggio nostro per farla arrivare sul nostro territorio. Abbiamo dato la copertura necessaria e l’assistenza». Si tratta di una «famiglia che sta sia a Reggio Calabria che a Milano e che aveva contatti diretti buonissimi con noi».

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