«Giudici e avvocati all’interno di logge massoniche parallele e non registrate». È quanto ha dichiarato il pentito Simone Canale al processo “’Ndrangheta stragista” in corso davanti alla Corte d’assise di Reggio Calabria e che vede imputati il boss di Cosa nostra, Giuseppe Graviano, e Rocco Filippone, ritenuti i mandanti degli omicidi dei carabinieri Fava e Garofalo, nonché degli altri attentati perpetrati contro gli appartenenti all’Arma fra il 1993 e il 1994. 

Questa mattina, collegato in videoconferenza da sito riservato, il collaboratore di giustizia Simone Canale ha dapprima ripercorso le tappe del suo inizio di collaborazione con la giustizia e poi approfondito le conoscenze acquisite. Canale, cresciuto nel biellese e già affiliato alla cosca Raso, è poi passato con gli Alvaro di Sinopoli. Questa mattina ha ricordato di aver commesso diversi omicidi su commissione della ‘ndrangheta. Per uno, addirittura, le sue dichiarazioni sono ancora coperte da segreto investigativo. 

La carica incappucciata riservata

Le domande del procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo portano subito Canale al punto nevralgico della sua deposizione: la sua conoscenza con Nino Penna, pezzo da novanta della ‘ndrangheta e ritenuto uomo assai feroce in orbita Alvaro. «Quando mi disse che aveva commesso un reato come una violenza di gruppo e che stava cercando qualcuno per far sì che ci potesse essere una revisione del processo, io mi resi disponibile. Scrissi anche un memoriale molto dettagliato. Quando Penna lo fece sapere alla sua famiglia all’esterno, loro gli dissero che un ragazzo che dà la vita per uno di loro non bisogna mai abbandonarlo». È così che nasce il forte legame fra i due, anche se poi Canale non ha necessità di accollarsi il reato perché inizia a collaborare con la giustizia. Tuttavia, quel gesto è sufficiente a far aprire Penna e farsi raccontare anche aspetti che sarebbero dovuti rimanere riservati. Uno su tutti: l’esistenza della cosiddetta carica “incappucciata riservata”. «Sono delle doti che sono dati quando ci sono in mezzo altri contatti più potenti. Solo tu sai cos’hai e chi te l’ha data – rivela Canale – che poi inizia a parlare delle logge parallele.

Le logge non registrate

Sempre da Penna, Canale apprende dell’esistenza di logge massoniche particolari: sono parallele (rispetto a quelle ufficiali) perché non registrate. Il pentito fa anche dei nomi, ovviamente da prendere con tutte le cautele del caso. «C’era il barone Nesci, tale Monteleone, ma anche tanti altri». Il pm Lombardo chiede se vi fossero giudici o avvocati. «Sì – sottolinea il collaboratore – mi fece il nome di Alberto Cisterna». Il procuratore fa notare che nel verbale c’era un altro nome, ossia quello del giudice Tuccio. «Sì – aggiunge – mi fece anche il nome di Tuccio. In relazione al processo Olimpia, mi disse che Tuccio era uno di loro. Mi parlò anche di avvocati come Giorgio De Stefano e dell’avvocato Romeo. Mi disse anche dell’avvocato Giuseppe Luppino, legato ad ambienti massonici e ‘ndranghetistici». Fra le famiglie coinvolte quelle dei Piromalli, Mancuso ed Alvaro. «Erano molto legate nella gestione del porto». 

Omicidi eccellenti e stragi di mafia

Ma Simone Canale ne ha anche per altri personaggi di ‘ndrangheta. Riferisce di aver saputo che nell’omicidio del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa fu coinvolto anche «Nicola Alvaro». Anche con riferimento al duplice omicidio Fava-Garofalo, oggetto del processo, Canale spiega che gli fu detto di una alleanza fra Palermo e Reggio Calabria: «Me l’hanno detto diverse persone, Domenico Nirta, Nino Penna, Corica, i Macrì». Il pentito poi elenca una serie di persone a suo avviso legate da rapporti di mafia: Totò Riina, Nitto Santapaola, i Graviano e Filippone. Il pm chiede se conosca il nome di Filippone, la risposta è immediata: «Rocco Filppone. Era la prima volta che sentivo quel nome, da parte di Corica. Credo fosse uno dei Tegano-Condello o un Piromalli». 

Si pensò ad un attentato a Riina?

Canale ricorda anche la figura di Franco Coco Trovato. «Mi dissero che lui, tramite Gaetano Fidanzati, era stato agganciato da Cosa nostra che chiese appoggio per fare le stragi a Palermo. Lui rispose che non poteva prendere una decisione simile da solo, ma ne avrebbe dovuto parlare con la società. Questa gli disse di farsi da parte. Ed allora, Coco Trovato, per non dire di no, aveva piazzato un’autobomba per Totò Riina, anche se poi fu reindirizzata su Di Pietro, dato che all’epoca era in corso il processo “Mani pulite”. Riina – conclude il pentito – lo volevano nascondere su Gioia Tauro, nel reggino o a Sinopoli. Fu lui a intervenire, durante la guerra di ‘ndrangheta, per fare da paciere».