«L’omicidio del giudice Scopelliti fu un gesto preventivo che aveva più significati: l’obiettivo era agganciarlo attraverso soggetti calabresi, per tentare di avere una relazione positiva di favore». Si esprime così il pentito Giovanni Brusca, uno degli uomini chiave della stagione delle stragi, colui che spinse il telecomando che diede il via alla carneficina di Capaci. Brusca è stato sentito questa mattina dal procuratore aggiunto di Reggio Calabria, Giuseppe Lombardo, nell’ambito del processo “‘Ndrangheta stragista” che sta facendo luce sui mandanti dell’omicidio dei carabinieri Fava e Garofalo e degli agguati contro gli altri militari in Calabria. Incalzato dalle domande dell’accusa, Brusca afferma di non sapere nulla di specifico su Scopelliti (in questi giorni la Dda ha inviato 18 avvisi di garanzia per il suo omicidio), ma di essere certo che per Riina fu un gesto preventivo ed allo stesso tempo «un monito per chi prendeva il posto di Scopelliti». Il giudice di Campo Calabro, infatti, avrebbe dovuto sostenere l’accusa nel maxi processo a Cosa nostra, ma venne trucidato prima di poter iniziare ad occuparsene in aula. 

I rapporti di Riina con i calabresi

Il pentito ripercorre anche i rapporti che Totò Riina aveva con le cosche calabresi ed in particolare con i Piromalli. «So che avevano un comparato, ma non saprei dire chi fosse di preciso. Però so che Riina aveva molte amicizie e rapporti ottimi, tanto che sistemava anche le faide».

Ma i rapporti con i calabresi erano forti anche con ulteriori famiglie. «Me lo raccontò mio padre. Mi disse, quando si parlava di Gaspare Pisciotta, che avevano agganciato una guardia per fare entrare il veleno dentro il carcere ed ucciderlo o addirittura fu la guardia stessa a farlo».

Il ruolo di don Stilo e dell’avvocato Lupis

Brusca ricorda pure come ci fu un tentativo molto chiaro di aggiustare il maxi processo anche al di là di Scopelliti. «Uno fu quello effettuato attraverso don Stilo che era amico di Antonio Salamone, ex capo mandamento di San Giuseppe Jato. Don Stilo lo incontrai a Roma, in occasione di quel tentativo di aggiustamento in Cassazione. Lui andò a parlare con un soggetto, un avvocato, ma non poté fare nulla di particolare. Ricordo che eravamo io e mio fratello». Ma i tentativi, a detta del pentito, riguardarono anche l’avvocato Lupis: «Lupis o Lapis, che operava a Reggio Calabria, in quanto aveva contatti in Cassazione». Ma perché i siciliani pensavano che i calabresi potessero sistemare la faccenda del maxi processo? Brusca ha una sua teoria: «I nostri contatti non erano andati a buon fine e loro avevano agganci a livello politico e giudiziario». 

La stagione delle stragi

Le domande del pm Lombardo arrivano ai rapporti fra Graviano e Riina. «Fino ad un certo punto, quando c’era Giuseppe Lucchese – ricorda Brusca – i rapporti erano buoni, i Graviano si mettevano a disposizione. So che questi rapporti si sono intensificati quando Giuseppe Graviano cominciò a contattare direttamente Riina. Io trovai questo rapporto ottimo. Dopo l’arresto di Riina in quattro o cinque abbiano sposato la sua linea, mentre tutti gli altri hanno fatto un passo indietro». Accade che Provenzano vuole accreditarsi come successore di Riina, mentre Leoluca Bagarella scalpita per prendere il potere e di fatto ci riesce. Ecco un particolare interessante: «Dopo l’arresto di Riina, in un incontro con Bagarella e Provenzano, questi si tirò indietro dicendo “come faccio?”, metteva ostacoli, creava difficoltà. Alla fine dice “ma io come faccio con gli altri?”, riferendosi a Benedetto Spera e Nino Giuffrè. E Bagarella gli disse: “Prendi un cartellone e gli scrivi che tu non sai nulla di quello che avverrà da questo momento in poi”. Bagarella chiosa: «Mi sorpresero le modalità con cui Bagarella si rivolse a Provenzano, tanto che questi voleva prendere il posto di Riina, ma Bagarella si mise di traverso e non lo prese più nessuno, di fatto». In estrema sintesi, per Brusca erano cinque a voler continuare sulla linea stragista: lui, Giuseppe Graviano, Leoluca Bagarella, Salvatore Biondino e Matteo Messina Denaro. Sì, c’era anche il super latitante. Che era di Trapani, ma contava già molto allora anche a Palermo. 

 

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