Era un altro tempo, era un’altra Calabria. Tra la fine degli anni 70 e l’inizio degli 80 nasce la ’ndrangheta unitaria. Nel cuore della Piana di Gioia Tauro la mafia stracciona diventa milionaria: piovono investimenti, le cosche reclamano (e ottengono) la loro parte per la costruzione del porto. Nella cava di Limbadi, centrale nella realizzazione dello scalo, i Mancuso entrano da prestanome delle cosche reggine e si fanno boss ricchi e temuti.

C’è un movimento antimafia che denuncia, lotta, si oppone. Peppe Valarioti è in prima linea: morirà a Nicotera nella notte tra il 10 e l’11 giugno 1980, appena dopo aver festeggiato con i compagni comunisti la vittoria elettorale a Rosarno. Per dirla con il sottotitolo del libro che Giuseppe Lavorato dedica al racconto di quella storia, è il primo assassinio politico compiuto dalla ’ndrangheta. Un assassinio che le indagini rischiano di derubricare a delitto passionale.

Non ci sono colpevoli per quella morte. E, soprattutto, c’è un “dopo” in cui l’arroganza dei boss si nutre di impunità. Secondo Lavorato - parlamentare, ex sindaco di Rosarno e memoria storica della sinistra in Calabria - l’omicidio di Valarioti e gli inciampi giudiziari che hanno frenato la ricerca della verità segnano un’accelerazione nella scalata mafiosa al potere in un’area che segna il confine tra le province di Vibo e Reggio Calabria e lega i clan Piromalli e Mancuso.

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«Il movente politico-mafioso escluso dalle indagini»

Sono gli anni in cui la ’ndrangheta muta. Uno dei suoi primi pentiti, Giuseppe Scriva, racconta un episodio che getta una luce oscura sull’ufficio che ha lavorato alla ricerca dei colpevoli del delitto Valarioti. Scriva ha ribadito la propria verità durante il processo ’Ndrangheta stragista e spiegato che all’inizio della sua collaborazione un magistrato «si era rifiutato di scrivere a verbale che lui (Scriva) era stato favorito nella latitanza da Rocco Filippone, soggetto che il collaboratore assumeva essersi macchiato anche di reati in materia di armi, dichiarando, il giudice, che si trattava di una persona vicina a suoi amici di Reggio Calabria».

Sarebbe accaduto a Palmi, nelle stesse stanze in cui si indagava sul delitto del giovane segretario cittadino del Partito comunista di Rosarno. Per Lavorato la testimonianza di Scriva, morto nel 2021, fa il paio con un atteggiamento che considera inspiegabile: il fatto che «l’inchiesta giudiziaria della Procura di Palmi abbia all’epoca deciso di rimuovere e ignorare gli avvenimenti e i fatti del duro scontro politico-sociale nel quale i comunisti furono protagonisti fondamentali. Indirizzò le indagini sul solito movente passionale e, dissoltosi tale artificio, rivolse attenzioni soltanto sulla cooperativa Rinascita, derubricando il chiarissimo movente politico-mafioso del delitto in vicenda di altra natura, collegata alle attività di quella cooperativa».

La matrice politico-mafiosa dell’omicidio viene affermata nel provvedimento che decide il rinvio a giudizio di Giuseppe Pesce, capomafia di Rosarno poi assolto, come mandante. Il giudice Antonino Todaro spiega che «l’assassinio di Valarioti ha colpito l’unica seria opposizione allo strapotere della mafia e ha imposto a questa la necessità e l’urgenza di un fatto clamoroso che assolvesse alla duplice funzione di riaffermare la sua vitalità, spregiudicatezza e imbattibilità e, ancora, di impaurire, disperdere gli oppositori».

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«L’impunità rese la ’ndrangheta più potente»

La Corte d’assise di Palmi, presieduta dal giudice Saverio Mannino, concordando con il giudice istruttore, aggiunge:  «Chiarito che l’omicidio ha matrice politico-mafiosa, l’individuazione esatta, nel vasto panorama del complessivo impegno della vittima e del partito politico da essa guidato, dello specifico settore o della specifica iniziativa, che più degli altri abbia potuto suscitare preoccupazioni per l’impegno, è obiettivamente difficile per la naturale estensione del raggio di influenza e di infiltrazione della mafia nei più vasti centri di potere e di accumulazione di ricchezza e si corre il rischio di privilegiare una via soltanto perché le altre sono rimaste nell’ombra».

Il processo, però, finisce senza colpevoli. È questo, secondo Lavorato, uno dei punti di svolta della storia: «L’impunità rese la ’ndrangheta più forte e prepotente». In questo senso l’omicidio del giovane professore comunista è una delle sliding door della storia calabrese. Arriva nel momento in cui la ’ndrangheta penetra le istituzioni e trae linfa finanziaria dagli investimenti che piovono in Calabria. I clan decidono di non tollerare l’opposizione dei comunisti nella Piana e ricorrono alle armi. Lo Stato non riesce a dimostrare la matrice mafiosa di quell’omicidio: questa mancanza alimenta il potere delle ’ndrine.

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Lavorato: «Dopo le assoluzioni dei boss iniziò l’attacco ai comunisti»

Le domande e la ricostruzione di Lavorato si concentrano proprio su questo momento di frattura: «Alcuni anni dopo l’assassinio – scrive – il pentito Pino Scriva indicò in Giuseppe Piromalli colui che istigò Giuseppe Pesce a ordire il grave fatto di sangue relativo alla morte di Giuseppe Valarioti e che l’esecutore fu Francesco Dominello, a sua volta ucciso da Antonino Pesce».

Quella rivelazione, continua l’ex parlamentare, venne rimossa e cestinata dalla Procura della Repubblica di Palmi, «nonostante provenisse da un testimone ritenuto attendibile in sentenze che hanno comminato decine di ergastoli».

La frase «avrebbe dovuto indirizzare le indagini anche verso Giuseppe Piromalli e, conseguentemente, sullo stato maggiore della mafia che guidava quel “Consorzio delle cosche” che aveva programmato l’assalto alle opere pubbliche e alla spartizione dei profitti identificato dalla sentenza del processo di Reggio Calabria». “De Stefano più 59” è il nome che del procedimento a cui si riferisce Lavorato. Altra cesura storica: nel 1978 la sentenza di primo grado condanna e incarcera i boss più potenti della ’ndrangheta, la pronuncia di appello li rimette in libertà. Il secondo verdetto è un altro punto di svolta, «perché da quel momento – è la sintesi di Lavorato – iniziò l’attacco mafioso più violento contro i comunisti».

In quel contesto, il ritorno in libertà dei boss «galvanizzò le ’ndrine calabresi – è l’argomentazione di Lavorato – che lo percepirono come occasione propizia per sferrare contro i comunisti l’attacco più violento e micidiale, per annichilire l’ultima seria opposizione al loro strapotere e chiudere la partita. A Limbadi uccisero Orlando Legname, a Rosarno Peppe Valarioti, a Cetraro Giannino Losardo, a Catanzaro fecero esplodere la bomba che distrusse la casa di Quirino Ledda e avrebbe potuto uccidere l’intera sua famiglia». I quattro frammenti dell’attacco mafioso ai comunisti hanno qualcosa in comune: tutti sono rimasti senza verità giudiziaria.

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La lettera di Giuseppe Pesce al pentito Pino Scriva

Lavorato spiega perché ha deciso di aggiungere nuovi capitoli alla sua operazione-verità sul delitto di Valarioti. La spinta è arrivata proprio dalle parole di Scriva, dalle «accuse gravi alla Procura della Repubblica di Palmi di quel tempo, contenute nelle testimonianze depositate al processo Gotha. E anche alla frase di un libro, che non avevo ancora letto: “A ’Ndrangheta” di Sframeli e Parisi». Quella frase è contenuta in una lettera che Giuseppe Pesce scrive a Pino Scriva: «Se posso essere utile, dimmi cosa posso fare per te. Verso la fine di gennaio mi faranno la causa per l’omicidio Valarioti e pare che le cose si mettono bene. Salutami gli amici e i paesani». Pesce, già prima dell’inizio del processo di Palmi, manifestava ottimismo sul suo esito, spiegando che per lui le cose si mettevano bene. Il quadro giudiziario attorno al delitto è pieno di falle.

L’obiettivo di Lavorato è lo strabismo della giustizia «sulle minacce, sugli attentati e sul groviglio politico-affaristico-mafioso che i comunisti combatterono e denunciarono con grandi lotte sociali ed esplicite testimonianze processuali. Si diresse sulla pista passionale e poi, fallita quella pista, indagò soltanto sulla cooperativa Rinascita». Il Pci, che aveva denunciato le collusioni con la ’ndrangheta, subì attacchi politici sulla base di una «narrazione che non rende giustizia agli avvenimenti, ai fatti e alle altissime qualità umane e morali di Peppe Valarioti».

L'accusa di Lavorato: «Carte scomparse per negare la verità»

L’affondo di Lavorato si fa ancora più duro: «Gli hanno attribuito intenzioni che non ha mai manifestato e hanno ignorato, anzi nascosto, i fatti che ha compiuto, le parole e le denunce che ha pronunciato sulle violenze mafiose compiute contro il Pci e i suoi militanti nella campagna elettorale e nello scontro politico. Ed è forte il sospetto che le carte processuali, che non si trovano più nemmeno negli archivi del tribunale di Palmi, siano state smarrite per negare una verità che negli scritti di Peppe sarebbe emersa». Verità negata e osteggiata negli anni delicatissimi che hanno segnato il passaggio dalla mafia stracciona a quella imprenditrice.

Uno scarto che nella Piana di Gioia Tauro i comunisti come Peppe Valarioti hanno saputo cogliere e avversare: «Non perché più intelligenti e combattivi di altri – sottolinea ancora Lavorato –, ma soltanto perché la Piana di Gioia Tauro-Rosarno fu il territorio dell’investimento più ricco di ogni tempo, si disse allora. Tutto avvenne sotto i nostri occhi, perché non c’è nulla di più manifesto e ostentato dell’improvviso arricchimento degli straccioni». Passeranno decenni prima che di quegli arricchimenti sospetti si inizi a parlare nelle aule giudiziarie. Anni in cui la ’ndrangheta, ignorata e sotto traccia, è diventata la più potente delle mafie. Un pezzo di quella storia – e della successiva sottovalutazione – si è consumata a Nicotera nella notte tra il 10 e l’11 giugno 1980. La notte in cui la Calabria ha perso Valarioti e le cosche sono diventate più forti.