«Confermo la volontà di collaborare con la giustizia».
Nonostante le pressioni e i tentennamenti ha deciso, alla fine, di collaborare definitivamente con la giustizia. Non è più un “dichiarante”, è effettivamente un collaboratore.

Danilo Monti, 33 anni, detto Zerbinà, ha la terza media e ha cominciato a delinquere fin da quando aveva 15 anni, quando il suo cammino ha incrociato quello, dice lui, di Giuseppe Lia, ristoratore ucciso a 47 anni e trovato carbonizzato nel bagagliaio di un’auto nelle campagne di Cutro a febbraio 2010.
«Ho iniziato la mia attività criminale quando ho conosciuto Giuseppe Lia di Sersale che avevo circa 15 anni, ero andato là per lavorare, da lì ho iniziato a frequentarlo e a fare reati di droga e di armi», racconta Monti, il 10 marzo scorso, davanti al sostituto procuratore della Dda di Catanzaro Veronica Calcagno e ai carabinieri che stanno conducendo l’indagine denominata Karpanthos, sulla criminalità organizzata nella Sila Piccola catanzarese.

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Il battesimo di ‘ndrangheta

Il collaboratore racconta di avere ricevuto i battezzi di ‘ndrangheta il primo novembre 2014 «alla presenza di Franco Gentile, Mario Gigliotti, Giuseppe Rocca e Gianfranco lervasi, fuori dall’abitazione di Santino Gigliotti».

Poi, nell’aprile 2015, avviene l’omicidio del macellaio Francesco Rosso a Simeri Mare. Danilo Monti viene arrestato come esecutore materiale del delitto. Comincia a parlare, indica mandante (Evangelista Russo) e istigatore (Francesco Mauro). Indicazioni preziose per chiudere il cerchio sul delitto del macellaio che gli valgono la concessione delle attenuanti generiche. Ma il giovane non è ancora un vero e proprio collaboratore.
Oggi svela molti retroscena dietro quell’omicidio.
Ma procediamo con ordine.

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Dopo il delitto Rosso la cosca chiede di uccidere Giuseppe Rocca

Danilo Monti si lega a Giuseppe Rocca, 62 anni, di Petronà.
«Con Giuseppe Rocca ho combinato di tutto», dice, e racconta, tra le altre cose, di un furto d’oro nella casa di un architetto.
«Abbiamo rivenduto l’oro ad un gioielliere di Isola Capo Rizzuto… Gli abbiamo portato 300, 400 grammi, in quella occasione e ce l’ha pagato qualche euro in meno rispetto al prezzo di mercato».
Ma Rocca è inviso a Mario Gigliotti e Filippo Bubbo perché «stava dando fastidio ai loro affari».
Così, dopo l’omicidio Rosso – quando ancora Monti non era stato arrestato e si era già trasferito a Lecco – una sera dell’estate 2018, a cena, Mario Gigliotti «mi ha detto se potevo attirare Giuseppe Rocca con un traggiro a Lecco e ucciderlo e farlo sparire. Mi disse che a Petronà non era conveniente perché a Filippo Bubbo doveva attivare un definitivo». In più «Gigliotti mi disse che se possibile non avrei dovuto far trovare il corpo». In quel periodo Monti era sceso in Calabria «perché dovevo trovate un po’ di liquidità».
Il giovane, però, non prende bene questa proposta, visto il legame con Rocca.

«Dopo il delitto Rosso, Mario Ferrazzo mi voleva uccidere»

La questione era delicata. Monti non poteva dare un no secco a Gigliotti perché Gigliotti lo aveva coperto con Mario Donato Ferrazzo, detto “Topolino”, boss di Mesoraca, dopo l’omicidio del macellaio.
«Dopo l’omicidio di Francesco Rosso – spiega Monti –, Mario Ferrazzo mi voleva uccidere per aver commesso l’omicidio senza il suo benestare». Ferrazzo viene descritto dal pentito come un uomo che «comandava tutta la montagna da Mesoraca fino a Taverna».

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Danilo Monti viene a sapere che «Gigliotti mi aveva sistemato la situazione con Ferrazzo notando che Mario quando vuole le cose le fa e che solo per suo fratello (Santino Gigliotti, fratello di Mario Gigliotti, ucciso nel 2016 ndr) non aveva fatto nulla».
Così, in maniera diplomatica, il giovane dice a Gigliotti che a Lecco l’omicidio di Rocca non si può fare perché in quella città ci sono troppe telecamere.

«Gli isolitani volevano la morte di Mario Ferrazzo»

«Dopo l’omicidio di Santino Gigliotti – racconta il pentito –, Antonio lervasi mi disse se volevo partecipare all’omicidio di Ferrazzo da parte degli Isolitani, perché Ferrazzo stava dando fastidio agli Isolitani. lervasi mi disse se volessi partecipare, anche se l’omicidio non era stato ancora deliberato. Io dissi di sì, perché in ogni caso ce l’avevo un po’ con Ferrazzo perché lui voleva uccidermi. Sicuramente c’era già qualcosa nell’aria perché ricordo che lervasi mi disse “questo mangia solo lui in montagna, vuole mangiare da solo”. E poi anche per il fatto di Santino Gigliotti, la responsabilità del cui omicidio veniva attribuita sempre a Mario Ferrazzo per gli appalti boschivi…».