Vessati e raggirati con contratti che part time erano solo sulla carta, i lavoratori migranti per i titolari dell'azienda "La Carota" erano "cose" da sfruttare fino allo sfinimento
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Per loro non erano uomini, ma macchine, strumenti da lavoro da spremere fin quando il carburante non finiva. Senza voce né diritti, neanche a stare male o ad essere vinti dalla stanchezza. E poi vessazioni gratuite, turni massacranti, insulti, minacce, inganni. Ai lavoratori stranieri che lavoravano per l’azienda “La Carota”, oggi per questo finita sotto sequestro, non è stato risparmiato nulla.
Un sistema zoppo
Lo racconta in dettaglio l’inchiesta della procura di Paola, diretta dal pm Antonio Lepre e coordinata dal procuratore capo Pierpaolo Bruni, che ha portato all’arresto di cinque noti imprenditori di Amantea, Gennaro, Francesco, Rocco, Saverio e Roberto Suriano, e dei due caporali stranieri che lavoravano per loro, Anouar Hossain Mizan e Das Kakon.E quell’indagine è non solo un catalogo degli orrori. Ma soprattutto, è la fotografia di un sistema zoppo in cui la mancanza di diritti, l’impossibilità di regolarizzare la propria posizione per migliaia di lavoratori, i crateri nella normativa rendono lo sfruttamento la regola e non l’eccezione.
La regola del lavoro grigio
Lo hanno provato sulla propria pelle i quattro lavoratori bengalesi che alla fine, stanchi di abusi e sfruttamento, si sono rivolti al commissariato di Paola per denunciare i Suriano. Quando hanno iniziato a lavorare per loro erano tutti richiedenti asilo, dunque per legge potevano avere solo contratti di sei mesi. E all’azienda “La Carota” inizialmente lo avevano, ma nessuno ha mai controllato se quel contratto part time che risultava su carta fosse effettivamente reale. Non lo era, anzi nessun impiego regolare prevede in Italia turni che potevano arrivare fino a 26 ore. Impieghi da schiavi.
Niente riposi né diritti
«Durante il periodo lavorativo – si legge nelle carte - non gli è stato mai garantito né tantomeno riconosciuto alcun diritto; non hanno mai goduto di riposi settimanali, ferie, congedi per malattia o aspettativa e né hanno mai ricevuto alcun compenso per le ore di straordinario prestate. La paga della giornata lavorativa (dalle ore 08.00 alle ore 13.00 e dalle ore 15.00 alle ore 24.00) era sempre e solo di 30 euro giornaliere». E peggio andava a chi era obbligato ad andare anche ai mercati generali di Cosenza. Il quel caso, il “turno” finiva il giorno successivo.
La ricetta della nuova schiavitù
«In pratica, effettuavano un orario lavorativo di ben 26 ore percependo sempre e solo la stessa paga di 30.00 Euro» cioè «venivano retribuiti 1,15 euro ad ora, per lavori massacranti!!!» sottolinea il pm Antonio Lepre. E i pagamenti non erano neanche precisi o puntuali. «Come successo anche per altri miei connazionali tengo a precisare che il nostro salario non veniva percepito con regolarità e per tenerci legati all’azienda ci pagavano dopo che avevamo accumulato un certo numero di giornate e anche quando ciò avveniva lasciano sempre un certo numero di giornate arretrate in modo da tenerci sempre sotto scacco» ha raccontato una delle vittime ai magistrati, che al riguardo non hanno dubbi. Si trattava «una sorta di strategia finalizzata a contenere e limitare le richieste e il riconoscimento dei diritti dei suoi lavoratori, pagandogli sistematicamente con ritardo le giornate lavorative maturate. Qualora un dipendente di nazionalità Bangla decideva di andare via, le giornate a credito pendenti non gli venivano liquidate».
Vietato essere stanchi
Una situazione degradante, che impediva ai lavoratori di emanciparci dallo stato di bisogno e di necessità, legandoli mani e piedi all’azienda. E se protestavano, non esitava a buttarli fuori. Con l’inganno ovviamente. Ad uno dei braccianti è bastato dire no ad un turno di 26 ore, con tanto di viaggio al mercato ortofrutticolo di Cosenza. Era periodo di Ramadan, veniva da ore senza bere né mangiare e si avvicinava il momento in cui avrebbe potuto consumare l’unico pasto della giornata. «Il mio connazionale era fisicamente molto debole – racconta uno dei ragazzi - e non si sentiva. Malgrado ciò il Roberto Suriano non solo non gli ha permesso di mangiare qualcosa ma gli ha pure detto che se non andava a Cosenza l’avrebbe licenziato. La stessa domanda è stata fatta a me e alla mia risposta negativa sono stato trattato in malo modo». Dopo è arrivata la vendetta dell’azienda «Un paio di giorni dopo mi hanno chiamato in ufficio e ingannandoci con il fatto che dovevamo firmare la busta paga ci hanno fatto firmare le dimissioni volontarie».
Irregolarità: grande affare per il padrone
Facile con chi non ha piena padronanza di lingua, leggi e procedure. Così come estremamente facile è ricattare chi improvvisamente diventa irregolare e costringerlo ad infinite giornate di lavoro passate a riempire, caricare e scaricare cassette. Senza assistenza legale o sindacale, vedersi scadere i documenti o perdere il permesso di soggiorno è facile. Basta saltare una richiesta di rinnovo, presentarsi impreparati di fronte alle oberate commissioni territoriali o semplicemente non poter contare su nessuno che ti aiuti a istruire il tuo caso. O a presentare ricorso. I quattro lavoratori bengalesi che lavoravano dai Suriano erano soli e il tritacarne della normativa, diventata una sorta di corsa ad ostacoli con il Decreto sicurezza voluto dall'ex ministro dell'Interno Matteo Salvini, non li ha risparmiati. In azienda non aspettavano altro.
La trappola dell’irregolarità
Lo sa bene una delle vittime, assunta dai Suriano quando era in possesso di permesso provvisorio di soggiorno, che nel corso dei mesi si è visto rigettare la richiesta di asilo politico. Avrebbe potuto fare appello, far valere anche il regolare impiego che aveva trovato, ma non aveva nessuno che lo consigliasse in tal senso. Il suo permesso è diventato carta straccia e lui uno dei tanti invisibili. «Mi sono trovato in una posizione di irregolarità. In quel momento anche se io avessi voluto trovare altro lavoro sarei stati nell’impossibilità di farlo». E i titolari dell’azienda “La Carota” ne hanno approfittato.
Il ricatto consapevole dei Suriano
«Ho informato Rocco Suriano, il quale mi ha riferito che non c’erano problemi e potevo lo stesso continuare a lavorare – racconta una delle vittime - Senza quei soldi non avrei mai avuto alcuna forma di sostentamento e per cui per me era molto importante mantenere quel lavoro, in quanto come già detto, sarebbe stato per me impossibile trovarne un altro». Una condizione di ricattabilità e di bisogno su cui l’azienda ha lucrato. «Da quel momento – racconta uno dei braccianti - la mia condizione si è molto modificata e sono iniziati i maltrattamenti e lo sfruttamento da parte di tutti i Suriano, che approfittando del fatto che potevo lavorare per nessun’altra azienda hanno iniziato ad incalzarmi facendomi lavorare con orari e turni massacranti».
«Mi trattavano come un animale»
Non c’era rispetto alcuno per i lavoratori, non c’era neanche pietà. «Un giorno, mentre scaricavo il camion ai mercati di Cosenza sono accidentalmente caduto facendomi male – ha messo a verbale una delle vittime - Invece di essere aiutato sono stato sgridato Roberto Suriano che brandendo un bastone mi è venuto contro minacciandomi di colpirmi. Dolorante mi sono dovuto rialzare e mettere al loro posto tutti i pomodori che mi erano caduti». Un’altra invece ha raccontato di «essere stato sempre trattato come un animale, con insulti e cattive parole dirette contro la mia persona. Un giorno Franco Suriano dopo avermi sgridato per una stupidaggine mi ha pure lanciato addosso una cassetta facendomi male. Visto le minacce subite ho molta paura di eventuali rappresaglie nei mei confronti».
Insulti, minacce e violenze gratuite
Nessuno di loro ha dichiarato di essere stato picchiato. Ma hanno visto i titolari dell’azienda riservare quel trattamento ad altri lavoratori. E ne erano tutti terrorizzati. «Ho visto Roberto Suriano prendere a schiaffi un cittadino Rumeno di nome Nicola senza alcun valido motivo» racconta agli investigatori una delle vittime «avevamo tutti paura che la stessa cosa potesse accadere a tutti noi qualora ci fossimo lamentati di qualcosa». Insulti e minacce non mancavano mai. «Hanno usato parolacce impedendoci ogni possibile reazione. A volte siamo stati offesi dialetto Calabrese ma non abbiamo capito cosa volessero dirci» aggiunge poi.
Vite annichilite per massimizzare i profitti
Per i Suriano, quegli uomini erano macchine, strumenti da cui trarre il massimo profitto. Negavano loro persino il diritto di mangiare seduti ad un tavolo, privilegio riservato ai soli italiani. Per tutti – e ci lavoravano in oltre 35 all’azienda La Carota – esistevano solo due bagni e per giunta malridotti e poco funzionanti. Per loro non sono mai esistite visite mediche o dispositivi di protezione, neanche in piena pandemia. Per i titolari dell'azienda però era perfettamente normale. E per i magistrati questo è indice di «una radicata personalità criminale e di assoluta indifferenza al rispetto di ogni regola giuridica, la cui violazione è stata scientificamente programmata al fine di poter conseguire il massimo dei profitti economici dall’attività aziendale».