File di agrumeti, campi di zucchine, messi di grano: nelle strategie di colonizzazione economica messe in campo dalle cosche di ‘ndrangheta non ci sono solo le acquisizioni compulsive di bar,  ristoranti e società di servizi. In Calabria infatti, raccontano le indagini delle distrettuali antimafia di Reggio e Catanzaro, il controllo del territorio da parte delle cosche passa ancora dal controllo della terra. A Crotone come a Rosarno, a Strongoli, Cassano o Limbadi. Un copione che si ripete identico su tutto il territorio regionale e che vede la gestione (diretta o indirette) delle attività agricole sempre nel mirino dei clan. Una “fissazione” che inquina inevitabilmente il mercato pulito e che, oltre a garantire alla criminalità organizzata un ottimo ritorno economico, consente agli stessi clan di estendere ed amplificare la propria influenza di stampo feudale sul territorio di “competenza”. Un copione così consolidato che spesso sono gli stessi imprenditori agricoli a rivolgersi ai boss in maniera preventiva per evitare problemi e ritorsioni.

L’ultima conferma della passione dei clan per la terra arriva dalle carte  dell’inchiesta Glicine che ha smantellato la cosca dei “papaniciari”. È lo stesso boss Mico Megna ad occuparsi personalmente di un affare estremamente redditizio legato alla coltivazione e alla commercializzazione estera dei prodotti ortofrutticoli da svilupparsi nei terreni che in origine erano destinati alla realizzazione del complesso turistico Europaradiso: «in particolare – scrive il Gip – è emerso che Salvatore Aracri e Domenico Megna abbiano sfruttato i terreni formalmente intestati al primo (e che il secondo aveva in pegno) concedendoli in forma di locazione a Massimiliano Maida, imprenditore agricolo completamente asservito ai desiderata della cosca».

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Un affare reso possibile dalla “collaborazione” dell’imprenditore austriaco Josef Wieser – che quei prodotti li avrebbe poi rivenduti sul mercato estero eludendo il pagamento dell’Iva – che nonostante le continue ingerenze degli uomini del clan nella gestione dell’azienda, esegue le direttive che arrivano da Crotone: «Io gli ho risposto che non ha altre possibilità – racconta Aracri ad un sodale riferendosi alla impossibilità di Wieser di ribellarsi – e se deciderà di continuare le coltivazioni qui, andrà da lui». A impedire l’ingerenza di eventuali altri imprenditori in grado di scalzare l’azienda su cui aveva puntato il boss dai rapporti con l’imprenditore austriaco, ci avrebbe pensato la cosca stessa, per un affare che da una parte «rafforzava le capacità di controllo del territorio della cosca» e dall’altra ne alimentava i guadagni «consentendo all’impresa di Maida di lavorare in regime di forte monopolio, sbaragliando la concorrenza di settore».

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E qualche giorno dopo gli arresti dell’operazione Glicine, pochi chilometri più a nord, a Cassano, le indagini della distrettuale antimafia di Catanzaro avevano dimostrato come anche gli Abbruzzese del clan degli zingari, avessero esteso i loro interessi a particolari forme di estorsione verso le aziende agricole della zona. Un interesse che in questo caso si concretizzava nella richiesta di pedane di frutta che il clan avrebbe rivenduto poi sul mercato delle bancarelle. «è indubbio – si legge nelle carte dell’operazione Athena – che dietro ogni singola richiesta di prodotti ortofrutticoli vi fosse una strategia ben precisa, studiata ad hoc per apportare il massimo dei guadagni all’associazione mafiosa con il minimo rischio possibile». Quello che sorprende è il fatto che gli uomini del clan non avessero neanche dovuto usare la forza per ottenere quanto voluto: un paradosso che aveva fatto maturare negli stessi imprenditori vittima dell’estorsione, la falsa convinzione di potersi opporre alle richieste. «La possibilità di dire no – scrive il gip – o meglio la convinzione di godere della libertà di poter rifiutare le richieste provenienti dagli zingari, costituisce paradossalmente un altro elemento su cui la strategia criminale in atto poggia la sua credibilità».

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Di stampo più feudale invece la strategia che i Bellocco avevano messo in opera a Rosarno per il controllo effettivo e quasi totale del mercato legato agli agrumeti e ai kiweti. Un controllo opprimente fatto di mazzette da riscuotere sui piccoli proprietari su base annuale rispetto agli ettari di terreno posseduti, di “diritti” di guardania sui terreni della zona e soldi pretesi sulle alienazioni dei terreni stessi. «La si deve andare con un block notes e dire questo terreno è di Tizio, questo terreno è di Caio… questo terreno è di Tizio e quest’altro e di Caio» diceva intercettato Benito Palaia riferendosi ai terreni che la cosca avrebbe dovuto censire analiticamente per poi predisporre il relativo piano di tangenti da pretendere: «Vuole – sottolineava il gip nell’ordinanza “Blu notte” – effettuare un censimento in contrada Romano di tutti i proprietari, al fine di non tralasciare nessuno nelle richieste estorsive».

A spiegare come funzionasse il “mercato” delle estorsioni sulle coltivazioni di maggiore pregio nella Piana, era stato il collaboratore di giustizia Vincenzo Albanese: «Lì raccolgono mi pare 100 o 200 euro all’ettaro. C’è un tariffario si, anche per chi compra i mandarini c’è il tariffario. Non è che uno va e compra così, deve dare conto pure al guardiano. Là a Rosarno funziona così».