«La sala giochi ce l’ha… Questo ce l’ha… La mensa dell’ospedale ce l’ha… Pure la spazzatura…». Picchia duro sul pezzo forte della pubblica accusa, ovvero le intercettazioni, il pubblico ministero Andrea Mancuso che prosegue nella sua requisitoria al maxiprocesso Rinascita Scott. Il componente del pool di Nicola Gratteri, tra le righe, ribadisce un concetto chiave delle sue conclusioni: «Sono gli imputati stessi a parlare…». Quindi, proprio attraverso le conversazioni agli atti del processo, passa in rassegna i reati fine, concentrandosi, alla ripresa della requisitoria, sulle intestazioni fittizie di società e beni.

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Il pm, citando le parole di Giovanni Giamborino, presunto factotum del superboss Luigi Mancuso, esplora la galassia di piccoli e grandi affari di Saverio Razionale, figura apicale del locale di San Gregorio d’Ippona, che avrebbe mantenuto la sua influenza sul territorio d’origine, malgrado avesse spostato la sua residenza a Roma, attraverso il genero Alex Prestanicola. «La posizione verticistica di Razionale è circostanza ben nota, ma sul punto sarà ancora più circostanziata la collega Frustaci», spiega Andrea Mancuso che, tra gli affari di maggiore pregnanza, richiama appunto la mensa ospedaliera, appannaggio del clan sangregorese (come peraltro emerge anche dalla recentissima indagine Maestrale-Carthago), oggetto anche del narrato sovrapponibile di diversi collaboratori di giustizia.

Passando poi ad altre posizioni, il pm Mancuso scansiona quelle degli imputati Daniele Pulitano e Giuseppe Mancuso, figlio ed erede di fatto, secondo la prospettazione accusatoria, di Giovanni Mancuso, ovvero uno dei componenti della “dinastia degli undici” sui quali si forgia la storia ed il blasone criminale del casato di Limbadi. Giuseppe Mancuso che avrebbe assunto un ruolo importante, imponendo il proprio nome, nella risoluzione di piccole controversie comunque metaforiche del peso della sua famiglia. Poi gli imprenditori Mario ed Umberto Maurizio Artusa, le cui vicende processuali si legano a quelle di altri imputati (Giovanni Giamborino, Gianfranco Ferrante, Saverio Razionale e Gregorio Gasparro), i quali sarebbero ricorsi ai loro rapporti con i maggiorenti della criminalità organizzata, manifestando la propria intraneità ed adesione, per tutelare i loro interessi imprenditoriali, anche dopo il fallimento delle rispettive società. Avevano anche un rapporto di tipo personale con Luigi Mancuso, il quale – spiega il pubblico ministero – avrebbe anche fatto confluire propri soldi nelle attività degli Artusa, un tempo leader nel commercio di capi d’abbigliamento griffati, con interessi tanto a Vibo Valentia quanto a Lamezia Terme.

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In apertura di udienza, acquisito il parere del consulente tecnico nominato dal Tribunale, il collegio giudicante (Brigida Cavasino presidente, Claudia Caputo e Germana radice giudici a latere) ha emesso sentenza di non luogo a procedere per l’imprenditore Domenico Naso, stante la gravità delle sue condizioni di salute che rendono assoluta la sua capacità di stare in giudizio, con ciò accogliendo l’istanza dell’avvocato Giuseppe Di Renzo e senza opposizione da parte del pubblico ministero. Prima della ripresa della requisitoria, invece, ha reso dichiarazioni spontanee l’imputato Domenico Lo Bianco, figlio dell’ormai defunto patriarca dell’omonimo clan Carmelo. Domenico Lo Bianco ha ribadito la sua estraneità a contesti criminali, la portata delle sentenze assolutorie pronunciate nei suoi confronti in pregresse vicende giudiziarie, il risarcimento per un’ingiusta detenzione patita e l’esistenza di una cardiopatia che renderebbe non compatibile la sua condizione di salute con la detenzione in carcere. A margine delle dichiarazioni spontanee, i suoi difensori di fiducia – gli avvocati Giuseppe Di Renzo e Santino Cortese – hanno depositato istanza per la cessazione della custodia cautelare e, in via subordinata, un suo affievolimento con l’assegnazione degli arresti domiciliari.