La definisce «ribellione dei cuori» quella di tante donne, nate e cresciute in famiglie mafiose, che sentono oggi il bisogno di allontanarsi da un contesto caratterizzato dall’aver «confiscato la vita di molte persone».
Donne, madri – dice don Luigi Ciotti, presidente dell’associazione Libera, davanti alla commissione parlamentare Antimafia – che fuggono «per preservare la propria vita, ma anche quella dei loro figli», sottraendo alla ‘ndrangheta una risorsa preziosa: la discendenza.

Il destino delle donne di mafia

«Quelle di queste donne – alcune le conoscete e altre no, noi le abbiamo conosciute, le conosciamo, le abbiamo nascoste e le nascondiamo – sono storie di liberazione: questo essere libere nello spirito, capaci di vedere e di desiderare un destino diverso da quello che hanno ereditato, magari, per nascita in quel contesto mafioso e in quella famiglia. Sentono questo bisogno di liberazione, ma sono prigioniere – spiega don Ciotti –, se non si fa qualche cosa; sono prigioniere, di fatto, perché impossibilitate a fare delle scelte in vita, in assenza di strumenti che permettano loro più tranquillità nel fare delle scelte, per rompere la discontinuità rispetto a quelle della famiglia di origine. Noi abbiamo la responsabilità di liberare la loro libertà, perché non sono libere».
Ogni giorno arrivano donne a chiedere aiuto, ascolto, risposte. L’ultima, racconta il presidente di Libera, ha 22 anni.

Come nasce Liberi di Scegliere

Il progetto, oggi, è fare in modo che il protocollo Liberi di scegliere che aiuta le mamme e i bambini ad uscire dalla morsa delle famiglie mafiose, diventi legge. Don Luigi Ciotti racconta come si è arrivati a creare il protocollo. Un percorso lungo, nato a Reggio Calabria nel 1975 quando prese piede una cruenta guerra di mafia. «In quel momento di lotta di mafia, in quegli anni, decine di persone hanno scelto la via della latitanza, non perché incriminate dai magistrati, ma perché condannate a morte dalla guerra tra le faide delle famiglie mafiose», racconta don Ciotti.
Nonostante questo, tanti ragazzini subiscono il fascino del male, li definivano «malati di mafia». Il denaro, il potere, la forza ne avevano attratti un griosso numero.

Il ruolo di don Italo Calabrò

«Nel 1980 c'è un'ulteriore faida – spiega il presidente di Libera –. Qui comincia un capitolo che ci porta a oggi. Le autorità giudiziarie, i magistrati chiesero a un sacerdote di Reggio Calabria, di nome don Italo Calabrò – nei cui confronti si è aperto proprio in questo periodo un processo di beatificazione – di prendersi cura di un gruppo di bambini e delle loro mamme. Proprio in questo periodo storico c'è un magistrato, il presidente del tribunale dei minori di Reggio Calabria –, il giudice Ilario Pachi. Il giudice Ilario Pachi comincia a fare i primi affidamenti – siamo nel 1980 –, con la collaborazione di questo sacerdote di Reggio Calabria che aveva, tra l'altro, realizzato il centro Agape, e di un cofondatore della Caritas italiana. Nasce questa collaborazione, questo percorso».

Perché è importante fare in fretta

«Di questi ragazzi di allora alcuni ce l'hanno fatta, con le loro famiglie. Quando dico “famiglie” intendo “mamme”, sostanzialmente, non altro. Alcuni sappiamo dove sono, hanno costruito una loro vita nascondendosi. Certe situazioni sono un po' cambiate. Altri non ce l'hanno fatta: il richiamo forte dell'organizzazione li ha risucchiati dentro», dice don Ciotti.

Dopo la morte di don Italo Calabrò sarà il giudice Roberto Di Bella a portare avanti con grande forza questo progetto.
«che è la storia che ci porta qui, ancora una volta, a chiederci che cosa fare di più, ma che cosa fare anche in fretta, perché è cresciuto il numero di donne che chiedono una mano, di donne con bambini che chiedono una mano».