Una vita segnata dalla ’ndrangheta, dai suoi riti e dalle sue regole distorte. In un magazzino di Flero, in provincia di Brescia, Stefano Terzo Tripodi ripercorre i passi che lo hanno guidato dall’Aspromonte al Nord. Calabria-Lombardia sola andata: il figlio di Francesco Tripodi parla apertamente dei suoi trascorsi familiari. E ricorda «di essere emigrato a Parma negli anni Settanta»: lì avrebbe «iniziato a effettuare rapine (senza mai essere scoperto)». Nel fine settimana, lui e quelli del suo gruppo «andavano a Milano a picchiare i proprietari dei locali».

I racconti del “santista” che – secondo i magistrati antimafia – aveva rapporti con la politica locale e anche con una suora che avrebbe veicolato i messaggi del clan nelle carceri ripescano ricordi lontani.

Tripodi ricorda «il suo esordio all’età di 12 anni, dopo essere uscito dal collegio, quando si procurava un’arma da sparo con le 70mila lire regalategli dai parenti e, con una Vespa rubata, si faceva accompagnare da tale “Polverata” a fare una rapina alla banca del paese, recuperando 70 milioni».

Anche il trasferimento al Nord sarebbe legato a una storia di violenza: Tripodi, infatti, dice che il padre lo avrebbe mandato al Nord dopo che, «all’esito di una discussione», avrebbe sparato al fratello più grande.

Il “capo” del clan a Brescia riferisce l’aneddoto anche in un’altra circostanza ma con sfumature diverse: spiega «di aver sparato a questo Tallarita, cresciuto in casa con lui e divenuto picciotto prima di lui» e ricorda «di aver preso, quindi, una pistola appena uscito dalla casa di correzione e di essere stato “assunto”, guadagnando 500 euro per ogni morto». L’idea di Tripodi, in realtà sarebbe stata proprio quella di vivere commettendo omicidi: in un’altra conversazione intercettata dice proprio «che era venuto al Nord a fare il killer di mestiere, non potendo scendere in Calabria».

Il trasferimento a Brescia, stando alle verifiche fiscali, sarebbe avvenuto nel 2009.

La sintesi del gip distrettuale riporta altri passaggi significativi nei quali Stefano Tripodi «parla apertamente dei propri familiari e del loro inserimento nella ’ndrangheta. In particolare, riguardo al padre Francesco, ricordava l’esteso potere di comando che lo stesso aveva sul territorio e le condanne riportate, definendolo “capo crimine” nel periodo in cui vi fu “la mattanza” a Reggio Calabria».

Il capo dei Tripodi a Brescia si vantava anche della «significativa caratura criminale dello zio Cosimo Tripodi (già condannato per omicidio nel 1988); anche Francesco Tripodi (odierno indagato e figlio di Stefano) ricordava come un suo zio fosse stato in carcere e, dopo 25 anni, fosse uscito e avesse ammazzato un’altra persona salvo poi emigrare in Australia».