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È la storia di un sogno infranto. Una vita serena, perfetta, vissuta nella ricerca della felicità. Una vita spesa per la moglie, i suoi due bambini, i fratelli. Spesa per la famiglia. Una vita segnata dall’atteso ritorno nella terra. La storia di una vittima innocente della ‘ndrangheta. La ‘ndrangheta che non dimentica. È la storia di Bruno Vinci.
Bruno nasce il 10 ottobre del 1943 a Serra San Bruno, paese immerso nel cuore dell’Appennino calabro. La famiglia Vinci è numerosa: papà Michele e mamma Barbara mettono al mondo undici figli. La vita è dura ma si va avanti, mentre dalla Calabria in migliaia migrano, solcando gli oceani, in cerca di fortuna. Anche Bruno ci prova e raggiunge il Canada.
Il sogno di ritornare in Calabria
Bruno incontra Giuseppina, s’innamorano, si sposano e mettono su famiglia a Welland, nell’Ontario, a pochi minuti dalle cascate del Niagara. Dal loro amore nascono due bambini. Bruno lavora il legno con mani esperte e coltiva una grande passione per la fotografia e la pesca. E’ una vita tranquilla, apparentemente perfetta. Ma è una felicità incompleta. A Bruno manca la sua Serra, vive con nostalgia i ricordi dell’infanzia e dell’adolescenza. Giuseppina comprende il marito. Così la famiglia Vinci torna in Calabria: è il 1978. Bruno manda avanti la famiglia facendo il falegname. Mettono su un piccolo negozio di articoli sportivi, per la caccia e la pesca.
La tragedia, l’agguato
Il tempo scorre e Bruno ritrova gli affetti di un tempo. Il 14 aprile del 1980, però, il tempo si ferma. E’ pomeriggio. Bruno si reca nella gioielleria dei fratelli Francesco e Domenico, in Piazza San Giovanni. Davanti all’attività commerciale si ferma una Fiat 127 di color amaranto. Hanno tutti il volto scoperto. Uno resta in auto. Due scendono, fanno irruzione, sparano: esplodono dieci colpi impugnando pistole calibro 7.65. Domenico Vinci viene colpito in faccia dalla pioggia di fuoco, ma sopravvive. Bruno, invece, muore in pochi istanti.
A Serra l’unico presidio vero dello Stato sono i carabinieri della locale Compagnia, che sin da subito fanno il possibile per assicurare alla giustizia gli assassini. Cosa è successo agli uomini del capitano Aldo Mancuso e del maresciallo Giovanni Pastore è subito chiaro: non è stata una rapina finita male, è stato un agguato vero e proprio. Una vendetta. E così affiorano le ombre che turbavano Serra e le vite dei fratelli Vinci prima del ritorno di Bruno dal Canada.
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Ucciso per vendetta
E’ il 16 febbraio del 1975. La stessa gioielleria al numero 2 di Piazza San Giovanni era già stata teatro di una sparatoria. C’è Francesco Vinci, all’interno. Due uomini entrano e intimano di consegnare soldi e gioielli. Sono armati. Anche Francesco lo è: sente la sua vita in pericolo, tira fuori l’arma e scoppia un conflitto a fuoco. Francesco sopravvive. A terra, esanime, resta uno dei rapinatori: è Rocco Ursini, è un mafioso di Gioiosa Ionica, il centro della Locride in cui due anni dopo Rocco Gatto pagherà con la vita la sua ribellione al pizzo imposto proprio dagli Ursini. Rocco Ursini muore, Vincenzo Cutrone, il complice, resta ferito. A riconoscere il cadavere giunge Domenico Macrì, un pezzo da novanta della criminalità organizzata di Gioiosa. Non si fa scrupoli delle autorità presenti e così Macrì promette vendetta.
Un delitto impunito
Bruno è una vittima innocente della criminalità organizzata. Ne sono certi i carabinieri, che hanno gli elementi giusti per dare impulso alle indagini. Il primo indiziato per l’omicidio di Bruno e il tentato omicidio di Domenico è Mario Ursini, che negli anni successivi diventerà un boss di primissimo piano tra la Calabria e il Piemonte. Il secondo sospettato è Salvatore Sainato, considerato esponente di spicco della ‘ndrangheta, elemento di collegamento tra le cosche della Locride e quelle della dorsale delle Serre. Il terzo non è neppure maggiorenne, si chiama Rocco IIritano. Gli elementi a loro carico, però, non bastano. E così il 17 marzo del 1982 il giudice istruttore di Vibo Valentia dichiara il non doversi procedere a loro carico. Nel luglio successivo, la Corte d’Appello di Catanzaro riconobbe l’insufficienza di prova per Ursini e sancì il non doversi procedere per non aver commesso pe Sainato e Iiritano. La morte di Bruno Vinci resterà impunita.
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