Qual è il ruolo delle donne di ‘ndrangheta?
Come scrive la professoressa di Criminologia Anna Sergi nella prefazione del libro “Madrine di ‘ndrangheta” di Federica Iandolo, sull’argomento non ci sono «“soluzioni” ma riflessioni calibrate sui risultati della ricerca». E la ricerca ha portato fino a oggi non una risposta ma tante possibili sfaccettature del fenomeno: le donne di ‘ndrangheta «hanno identità plurali».

«Non le hanno viste arrivare»

Per anni la presenza femminile è stata sottovalutata, le donne sono state relegate al ruolo di vestali mute della cultura mafiosa. Madri buone per educare i figli al silenzio, carne da matrimoni e alleanze.
Di presenza femminile sottovalutata ha parlato di recente anche il sostituto procuratore della Dda di Catanzaro Annamaria Frustaci, che, nel corso dell’incontro Contromafiecorruzione, organizzato dall’associazione Libera a Vibo Valentia, parafrasando un noto libro sul femminismo ha affermato: «Non le hanno viste arrivare».
Da custodi dei valori di ‘ndrangheta – ha spiegato il magistrato –, le donne hanno fatto un passaggio ulteriore, anche se scaturito da fatti accidentali, e questo «ha permesso a ‘ndrangheta e cosa nostra di sopravvivere».

L’inchiesta Sahel e il ruolo di Veneranda Verni

Proviamo a fare un esempio concreto e recente. Una delle ultime inchieste della Dda di Catanzaro, denominata Sahel (quel confine che separa il verde dal deserto), ha portato all’arresto di una donna, Veneranda Verni accusata di associazione mafiosa e anche reati fine come estorsione e traffico di droga. Secondo l’accusa – ma bisogna sottolineare che ci troviamo alle battute iniziali di questo procedimento ancora in fase embrionale – la donna, moglie di un uomo vicino alla famiglia Grande Aracri, alla notizia del pentimento del boss Nicolino Grande Aracri (poi rivelatasi un bluff) avrebbe laconicamente commentato: «Siamo a un altro libro». Per gli inquirenti una sorta di sprone a voltare pagina.

Già nel 2017 il collaboratore di giustizia Giuseppe Liperoti raccontava che un uomo vittima di un atto intimidatorio si sarebbe rivolto alla Verni per ottenere protezione. Veneranda Verni avrebbe agito sia «alle dirette dipendenze» del marito, Martino Vito, che sta in carcere, ma avrebbe goduto, sostiene la Dda, anche di «autonomia operativa» nel gestire le estorsioni.

«Non fare capire niente ai cristiani della “famiglia!»

Senza mai abbandonare il ruolo di madre educatrice ai valori mafiosi.
«Ti sto avvertendo da quando sei piccolo! E a te da un orecchio ti entra e dall’altro ti esce! Specialmente quando porti fidanzata e cristiani, parla poco! Non fare capire niente ai cristiani della famiglia!», dice la donna al figlio Francesco quando scopre che questo sta parlando con estranei.

Tre donne al 41bis

Le donne dentro le famiglie di ‘ndrangheta, ricorda il pm Frustaci in una intervista, «non partecipano ai riti di affiliazione, non ricevono cariche e doti di ‘ndrangheta, né vi sono nomi femminili che compaiono nelle cosiddette copiate». Oggi tre di loro si trovano in regime di 41 bis perché ritenute particolarmente pericolose: si tratta di Aurora Spanò, 67 anni, (al vertice della cosca Bellocco di San Ferdinando), di Teresa Gallico (reggente della ‘ndrina Gallico di Palmi) e di Nella Serpa, 68 anni, (reggente dell’omonima cosca consorteria di Paola).

«La ‘ndrangheta è femmina a San Ferdinando»

Prendiamo Aurora Spanò, madre di Antonio Bellocco, ucciso per mano del capo ultrà dell’Inter Andrea Beretta. È detenuta al carcere duro e nel 2015 è stata condannata 25 anni di reclusione (il marito Giulio Bellocco a 18) nell’ambito del processo Tramonto. Il giorno della condanna il giornalista Lucio Musolino scrive sul Fatto Quotidiano: «La ‘ndrangheta è femmina e a San Ferdinando porta un nome ben preciso: Aurora. Per anni boss e per sette mesi latitante. Era lei che, secondo la Direzione distrettuale antimafia, teneva le redini della famiglia mafiosa, costola dell’omonima ‘ndrina che detta legge nella vicina Rosarno». Era lei che imponeva il pizzo e vessava i negozianti costretti a pagare la mazzetta per non subire ritorsioni, che entrava nei ristoranti, banchettava per migliaia di euro e non pagava solo perché l’esercizio commerciale era in un edificio che le era stato confiscato. Era lei che dopo aver prestato a strozzo 600mila euro a due imprenditori della zona si è impossessata di uno stabile di proprietà della famiglia dei creditori, nel frattempo scappati al Nord Italia dove, anche lì, sono stati raggiunti e massacrati di botte. Era lei che, una volta arrestata, minacciava e malmenava le detenute con cui divideva la cella costringendole a rifarle il letto e pulire i servizi igienici. “Io sono Bellocco anche se non sono sposata!”, era il leit-motiv di Aurora Spanò, intercettata dai carabinieri durante un colloquio dietro le sbarre.

Anche se feroce, dietro questa donna c’è ancora l’ombra di un uomo che, in questo caso, non l’ha sposata. Una donna che oggi ha perso anche un figlio.

Le donne che fuggono

Ci sono le donne che fuggono, che cambiano nome, che, ha raccontato negli incontri di Vibo Patrizia Surace, impegnata nel progetto Liberi di Scegliere, «di nascosto, mentre vengono celebrati i processi dei figli, vanno negli uffici del Tribunale per i minori per chiedere aiuto. Non vogliono che i loro ragazzi debbano vivere quello che hanno vissuto loro», ovvero la violenza e la prevaricazione di un ambiente blindato in se stesso, restio a mostrarsi al mondo esterno.

Chiuse in una cassa di silenzio e diffidenza

Le donne di mafia non le hanno viste arrivare e, ancora oggi, di quello che realmente pensano, vivono e sopportano si sa poco. Si spia da un buco della serratura attraverso inchieste e ricerca.
Un dato appare certo, visto dall’esterno: nascere in una famiglia di ‘ndrangheta è una iattura che porta a seppellire figli, padri, mariti, a conoscere la violenza (subita o imposta ad altri poco cambia in termini di trauma) a doversi barcamenare tra carceri e latitanze, strategie e faide. Chiuse in una cassa di silenzio e diffidenza.