Il collaboratore di giustizia rievoca l’ascesa criminale dei ragazzi di Piscopio. Il riconoscimento del locale da parte del boss torinese Franco D'Onofrio e una gioventù costellata di rapine, omicidi, cocaina ed estorsioni finiti negli oltre 60 capi di imputazione del processo Rimpiazzo
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Il tatuaggio di San Michele Arcangelo come simbolo di affiliazione alla ‘ndrangheta. L’ex killer del clan dei Piscopisani, Raffaele Moscato ne aveva uno «grande, importante» sulla schiena. Un simbolo forte di appartenenza perché «si nota quando un affiliato alla ‘ndrangheta viene battezzato ed è un appartenente alla ‘ndrangheta», racconta il 38enne nato a Torino e divenuto un’arma giovanissima all’interno di una cosca giovane e feroce.
La storia di Raffaele Moscato emerge ad ogni interrogatorio. L’ultima volta è stato durante il maxi processo Maestrale che si sta tenendo nell’aula bunker di Lamezia Terme.
Una carriera criminale precoce
Quando Moscato ha cominciato a collaborare aveva 29 anni e alle spalle una vivace carriera criminale. Nato a Torino e tornato a Vibo Valentia, si era unito giovanissimo al gruppo dei Piscopisani che prende il nome dal quartiere di Piscopio.
L’origine della cosca la racconta lo stesso Moscato: «Il nome del clan proviene dal paese, che si chiama Piscopio, e il nome del clan è Piscopisani, che è una piccola frazione di Vibo Valentia. C’era un locale riconosciuto da San Luca da Polsi, un locale a tutti gli effetti, dove eravamo tutti affiliati, e il capo locale era Nazzareno Fiorillo, detto Tartaro, il capo società era Giuseppe Galati, detto Ragioniere, il contabile era Michele Fiorillo detto Zarrillo, il mastro di giornata era Rosario Battaglia e quelli della maggiore, diciamo, della società maggiore, eravamo anche io e Rosario Fiorillo, poi c’era la società minore dove appartenevano tutto il resto del clan dei Piscopisani, sia persone di San Gregorio d’Ippona e sia di Piscopio».
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Il locale di ‘ndrangheta dei «ragazzi»
A fare aprire il locale di ‘ndrangheta a dei «ragazzi» è Franco D’Onofrio, originario di Mileto, diventato un pezzo grosso della mala nel Torinese: «Una persona che ti fa aprire un locale di ‘ndrangheta a ragazzi, che ci mette la parola e lo fa aprire direttamente con l’autorizzazione di San Luca e con le altre famiglie del Reggino, non è da tutti mentre altre ‘ndrine del vibonese con vent’anni, trent’anni di storia e di crimine alle spalle non ci sono riusciti».
La ‘ndrina cresce e si pone subito in contrasto con i Mancuso, cerca di sottrarre terreno alla numerosa e potente famiglia di Limbadi. I ragazzi sono arroganti e irruenti, «sfidavano il diavolo senza problemi».
Omicidi, estorsioni, danneggiamenti. Il tentato rimpiazzo dei Mancuso
Quando viene arrestato, a marzo 2015, Moscato è accusato dell’omicidio di Fortunato Patania, a capo di una famiglia di Stefanaconi con la quale i Piscopisani avevano ingaggiato una faida. Il boss di Stefanaconi è stato ucciso il 18 settembre del 2011 nella Vallata del Mesima, all’interno della sua stazione di carburanti con annesso ristorante. Moscato ha 25 anni quando compie l’agguato.
A 29 anni decide di collaborare e scatena una delle più importanti operazioni messe a segno contro il suo clan: Rimpiazzo.
Oggi la sua condanna per l’omicidio Patania è diventata definitiva, come definitive sono diventate la condanne a 30 anni per Rosario Battaglia, 40 anni; Rosario Fiorillo, 35 anni; Francesco La Bella, 51 anni.
Nell’appello di Rimpiazzo Moscato è stato condannato per «associazione mafiosa, traffico di droga, estorsioni, danneggiamenti e tante altre cose, rapine», insomma per tutti i reati che portava avanti la cosca di Piscopio. «Solo per Rimpiazzo – dice Moscato – credo di avere sui sessanta capi di imputazione».
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Il rapporto con Silvano Mazzeo
Dunque, rapine, omicidi, estorsioni e un grande San Michele Arcangelo tatuato sulla schiena. Ad avere un simbolo simile su un ginocchio, ricorda Moscato, c’era un’altra persona, Silvano Mazzeo, detto Stallone per via della sua passione per i cavalli, di recente posto in regime di detenzione di carcere duro. Raffaele Moscato afferma che Silvano Mazzeo «tramite la moglie, è imparentato con i Galati, i Galati sono un’altra famiglia di ‘ndrangheta di Mileto. Posso affermare che Silvano Mazzeo appartiene alla ‘ndrangheta, anche perché lo conoscevo molto bene personalmente».
Il collaboratore racconta che Mazzeo aveva le mani in pasta un po’ dappertutto, «trafficava droga con i fratelli Fortuna, sia Sasha e sia Davide Fortuna, gli mandava la droga a Bologna, in più trafficava droga con me personalmente con i Fazio di Vibo Marina e con i Piscopisani stesso. Per qualsiasi cosa avevamo bisogno lui era sempre a disposizione. Ha mandato tanta droga anche a credito, che c’era fiducia, si era messo a disposizione anche per delle armi che lui sapeva che dovevamo fronteggiare a Pantaleone Mancuso, alias Scarpuni, che si era anche messo a disposizione, e in più abbiamo fatto qualche rapina insieme personalmente, diciamo, sia su Mileto e sia sul campo di aviazione di Vibo Valentia».
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Rapine e cocaina
Da Mazzeo Moscato si riforniva di cocaina, «prima abitava in un appartamento di San Giovanni di Mileto, poi si è spostato e si era fatto una casa, una specie, una casa che era indipendente, era piano terra, e andavo a rifornirmi di cocaina là… pure mezzo chilo, un chilo, come la stessa cosa facevano i fratelli Fortuna, solo che loro lo facevano un po’ di più, perché lui aveva la forza di dare anche quattro, cinque chili di cocaina ai fratelli Fortuna. Praticamente poi abbiamo organizzato delle rapine, con il suo appoggio in un garage a Mileto… tramite il Silvano Mazzeo abbiamo compiuto questa rapina e ci siamo divisi i proventi illeciti della rapina. Sempre con Silvano Mazzeo ci siamo organizzati e abbiamo fatto un’altra rapina nel chiosco di bibite. Abbiamo compiuto anche questa rapina e là abbiamo diviso anche i proventi illeciti con Francesco Scrugli, Rosario Battaglia e lo stesso Silvano Mazzeo».