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«Io sottoscritto… vorrei mettermi a diposizione per voi e la vostra famiglia». È il 14 marzo 2015 e la figlia di Antonio Cataldo “Papuzzella” torna a casa da scuola e sale sulla auto della madre. Porta con sé la lettera che un ragazzino che ha due anni in meno di lei, le ha consegnato per recapitarla al padre. Lei inizia a leggere parte del contenuto, ma la madre la interrompe bruscamente: «Ma ti stai zitta! Basta». Quelle parole, quel mettersi a disposizione, altro non era che una richiesta di affiliazione alla cosca Cataldo. Un ragazzino di quindici anni, dunque, che si rivolge al boss, tramite una lettera scritta di proprio pugno, per chiedere di entrare a far parte della ‘ndrangheta.
«Non può esserci attestazione più diretta e genuina – scrivono i pm – da cui evincere l’ammirazione di cui godeva il capo cosca Cataldo Antonio a Locri, come se il suo trascorso criminale fosse un esempio da emulare. Gli adolescenti locali lo considerano un modello a cui ispirarsi per conseguire rispetto e potere, percorrendo la strada dell’illegalità. La vicenda è talmente paradossale che permette di comprendere ancor meglio la portata del fenomeno mafioso a Locri. Di norma infatti, i ragazzi di quell’età si rispecchiano in tutt’altra tipologia di personaggi, invece nella locride è il boss a costituire il modello di riferimento. È evidente che la cultura mafiosa è talmente radicata in quel tessuto sociale che coinvolge finanche l’istituzione scolastica che, in quanto tale, dovrebbe essere avulsa da tali contaminazioni. Ed invece, nel caso di specie, è stata proprio la scuola il vettore attraverso cui la richiesta di “affiliazione” all’organizzazione mafiosa da parte di un quindicenne è stata veicolata al capo della cosca Cataldo».
c. m.