Certi segreti possono risultare profondi come il mare che, non a caso, fa da sfondo alle imprese tragiche del clan di Cetraro, piccolo centro del Tirreno cosentino.
È una delle principali mafie della provincia, se non la principale. Ma anche una delle più impenetrabili. Che ha in Franco Muto il suo capo indiscusso. Il suo è forse l’unico clan di ‘ndrangheta che non ha dovuto fare i conti con il pentitismo. Mai un tradimento o una diserzione. Il che ha complicato tanto la vita a chi, da quarant’anni, indaga su di esso.

Muto è un boss che conta, rispettato anche dalla camorra, capace di prosperare in edilizia, narcotraffico, estorsioni. E di costruire un impero nel settore ittico, da lui monopolizzato con il racket su oltre 150 km di costa, ma capace di valicare anche i confini regionali, toccando Basilicata e Campania.

Il suo gruppo si è fatto largo con la forza, a suon di omicidi, alcuni dei quali eccellenti e destinati all’impunità: quello di Lucio Ferrami, imprenditore coraggioso che si oppose al pagamento del pizzo; e poi Giannino Losardo, segretario della Procura di Paola e consigliere comunale del Pci.  «Tutto il paese sa chi mi ha sparato» dirà in punto di morte. Tutti sanno, nessuno parlerà.  

Muto entra ed esce dalle carceri, vive lunghe stagioni da latitante e altre al confino. Vicino o lontano, la sua ombra non abbandona mai Cetraro. E continua a estendersi. Per anni, l’ospedale locale è considerato un suo feudo. Un’inchiesta lo vuole in combutta con magistrati, ex sindaci, medici, finanzieri. 
In un’altra si paventano rapporti fra lui e la massoneria, ma finirà tutto in una bolla di sapone, materiale buono per accrescere la sua leggenda nera.

Finalmente un processo sancisce l’esistenza della cosca, ma senza Muto, che intanto è stato prosciolto in udienza preliminare. Una seconda inchiesta, invece, si conclude con la sua condanna per concorso esterno al clan di cui dovrebbe essere a capo. Succede anche questo. 

Ci vorrà il 1992 per far sì che il suo mito dolente di “Re del pesce” trovi conferma in un’aula di tribunale con una condanna per associazione mafiosa che rimarrà poi isolata per i successivi trent’anni. Di anni, oggi, Franco Muto ne ha 82 e diversi pentiti di altre cosche lo descrivono come un boss ormai in pensione.
Era tornato in carcere alcuni mesi fa con la prospettiva di non uscirne più, ma il destino ha voluto diversamente. Non si arrestano le maree. E alcuni segreti, i più oscuri, talvolta sono destinati a rimanere tali.