Gli ultimi assegni in bianco sequestrati portano la data di agosto 2020. Oltre 40mila euro il denaro sequestrato nel corso delle perquisizioni che da questa mattina all’alba i carabinieri hanno effettuato nelle case e pertinenze dei 22 fra capi e gregari del clan Longo arrestati questa mattina all'alba dai carabinieri del comando provinciale di Reggio Calabria e della Compagnia di Taurianova, all'esito dell'indagine della procura ant sviluppata con il supporto della Guardia di Finanza. Un segno che la banca criminale dei Longo era ancora attiva e già era al lavoro per sfruttare le difficoltà economiche e la crisi di liquidità seguite ai mesi di lockdown.

Prestiti cappio

Il metodo in fondo era rodato. Il clan forniva denaro liquido e immediato in cambio di un assegno in bianco emesso a garanzia, che nel giro di pochi mesi si trasformava in un cappio, mentre gli interessi crescevano e il debito rimaneva lì, impossibile da saldare. E nessuno fiatava.

«Denunciate, con la crisi queste situazioni si possono ripetere»

«Questo vuole essere solo il primo step di un’indagine a più ampio spettro, che identifichi tutta la rete – dice il procuratore capo Giovanni Bombardieri - Speriamo che questa operazione possa essere un segnale per quanti ancora oggi non hanno avuto il coraggio di denunciare». Anche perché, continua «temiamo che con le difficoltà economiche di questo periodo storico tali situazioni si possano ripetere».

Il regime del silenzio imposto dal clan Longo

Schiacciati dal terrore che il clan, storicamente radicato a Polistena, ha saputo imporre, proni alle regole di chi era in grado di mettere il veto sull’apertura di un’attività «perché in quella strada esiste una parola data dai tempi di mio padre», decine di imprenditori sono caduti nella rete dei Longo. E solo in tredici, dopo anni di indagini e lavoro dei carabinieri del paese, hanno accettato di rompere il muro di omertà e parlare.

Intimidazioni, vessazioni e violenze

Un silenzio spesso dettato dal terrore, superiore anche «all’inaudito campionario di vessazioni» che mollti hanno subito. «Alcuni hanno persino pensato al suicidio» dice il procuratore aggiunto, Gaetano Paci, che ha coordinato l’indagine dei pm Giulia Pantano e Sabrina Fornaro. Altri hanno dovuto permettere al clan di entrare nella gestione della propria azienda, di decidere prezzi, clienti e fornitori, altri ancora si sono rassegnati a chiudere.

Vittime che si trasformano in carnefici

C’è stato persino chi – sottolinea il procuratore capo Bombardieri – da vittima si è trasformato in carnefice e pur di estinguere il proprio debito o salvarsi, ha dato in pasto al clan altri imprenditori disperati o si è fatto latore di minacce e intimidazioni. «C’era un territorio - sintetizza Paci- totalmente assoggettato a logiche di tipo feudale da parte di una cosca storica». Che a Polistena pretende di imporre il suo dominio e da parte di Polistena viene legittimata.

Giustizia privata

Perché c’era chi si rivolgeva a loro anche per vedersi riconosciute pretese legittime o per avere giustizia di torti o truffe subiti, come se in paese vigesse una legge diversa da quella dello Stato. «Il clan si proponeva come un erogatore di giustizia privata» commenta Bombardieri. E in tanti andavano a bussare a quella porta per poi pagarne il prezzo.

La trappola dei clan

Lo ha fatto una cartiera, chiedendo giustizia per una fornitura di materiale inviata e mai pagata. Lo hanno fatto alcuni esercizi commerciali per tenere lontana la potenziale concorrenza. Il clan eseguiva poi presentava il conto. Come per i denari prestati e poi trasformati in strumento di ricatto e minaccia, che diventano una condanna, che le vittime costruiscono con le proprie mani e con il proprio silenzio. A meno che qualcuno non decida di romperlo.