Privilegi e scambi di piaceri, per rendere più comoda la permanenza dei boss in cella. Lo scenario inquietante è venuto alla luce grazie alle rivelazioni dei pentiti che hanno spiegato cosa succedeva nel carcere di Cosenza. Lussi e confort, spaccio e gestione degli affari da dietro le sbarre. Tutto era possibile grazie alla complicità di alcune guardie
Tutti gli articoli di Cronaca
PHOTO
Il carcere, per i capi cosca, come un albergo a cinque stelle, in cui c’erano tre agenti di polizia penitenziaria a disposizione per garantire ogni comfort, la distribuzione di generi alimentari extra, il rifornimento di whisky, persino quello di hashish e altre sostanze stupefacenti. Il trattamento di favore è andato avanti per almeno sei anni. A riferirlo sono stati nove collaboratori di giustizia appartenenti alle consorterie criminali Lanzino/Ruà/Patitucci, Bruni/Zingari e Rango/Zingari. Si tratta di Adolfo Foggetti, Franco Bruzzese, Ernesto Foggetti, Mattia Pulicanò, Daniele Lamanna, Luca Pellicori, Vincenzo De Rose, Francesco Noblea e Luciano Impieri.
Costanti i contatti con l’esterno
La vicenda è venuta a galla durante i tanti interrogatori cui i pentiti sono stati sottoposti. Ad un certo punto hanno dovuto spiegare agli inquirenti come faceva il clan a mantenere i contatti con i boss rinchiusi nella casa circondariale di Cosenza. E’ stato allora che hanno dovuto ammettere l’esistenza di un canale privilegiato tra le celle della struttura intitolata a Sergio Cosmai ed il mondo esterno. Un canale allestito con la collaborazione di tre guardie infedeli. Due finite agli arresti, Luigi Frassanito e Giovanni Porco, il terzo, F.C., indagato a piede libero poiché collocato in quiescenza. Per lui dunque, non sussiste più il pericolo di reiterazione del reato. Gli agenti non si facevano scrupolo neppure di veicolare, attraverso una serie di pizzini, gli ordini e le indicazioni impartite dai vertici dei gruppi di stampo ‘ndranghetistico agli altri elementi ancora in libertà. In cambio, gli agenti ricevevano denaro prelevato direttamente dalla bacinella, ma anche regalie di vario genere. Ad esempio, Adolfo Foggetti rivela di aver più volte regalato a Frassanito un profumo. Le costose essenze delle marche più prestigiose erano per Frassanito una vera passione. Le riceveva anche da Rosanna Garofalo, moglie del boss Francesco Patitucci. La pacchia è andata avanti fino al gennaio del 2015 quando i comportamenti illeciti sono venuti a galla e il direttore dell’istituto di pena ha trasferito sia Frassanito che Porco al nucleo traduzioni e piantonamenti, per allontanarli dalle sezioni detentive, evitando così che potessero continuare ad avere contatti con i carcerati.
Il farmaco per modificare la voce
Uno dei poliziotti infedeli, tra i vari servigi resi ai membri delle cosche, ha anche introdotto in carcere un farmaco utilizzato per modificare il timbro della voce, consegnato a Roberto Porcaro, imputato nell’ambito del processo scaturito dall’operazione Terminator 4. In tal modo Porcaro ha potuto far invalidare una perizia fonica relativa ad una intercettazione che lo riguardava. La circostanza è rivelata dal pentito Mattia Pulicanò, detenuto tra il settembre 2009 e il luglio 2011 e poi tra l’ottobre 2011 ed il gennaio 2013. Pulicanò, componente della cosca capeggiata da Ettore Lanzino e Gianfranco Ruà, riferisce inoltre di aver utilizzato la mediazione di Frassanito per continuare a gestire le sue piazze di spaccio nonostante si trovasse in prigione.
Le Hogan di Foggetti e l’orologio di Maurizio Rango
Quando Adolfo Foggetti fu arrestato per l’omicidio di Luca Bruni, indossava ai piedi un paio di Hogan. Maurizio Rango invece aveva al polso un orologio di valore, non consentito dall’ordinamento carcerario. Al loro ingresso trovarono tre guardie carcerarie, tra le quali uno degli arrestati, Giovanni Porco. Nei tanti interrogatori resi in qualità di collaboratore di giustizia, Foggetti ha riferito tra l’altro che uno dei tre agenti avrebbe voluto sequestrare sia le scarpe che l’orologio, ma fu allontanato da Porco che non solo consentì loro di tenere gli oggetti non autorizzati, ma fece anche in modo che non si procedesse alla loro perquisizione personale. Giovanni Porco poi, fece anche in modo che Foggetti e Rango finissero nella stessa cella.
Il timore di Foggetti di essere avvelenato
Adolfo Foggetti venne arrestato il 25 novembre del 2014. Il 17 dicembre dello stesso anno, ha iniziato a collaborare con la giustizia. E’ stato per questo posto in regime di isolamento. A vigilare sulla sua detenzione era stato designato proprio Giovanni Porco, che Foggetti sapeva essere uomo a disposizione dei clan. Per questo, temendo che l’agente potesse avvelenarlo, chiese ed ottenne dal comandante della polizia penitenziaria la sua sostituzione. Anche Daniele Lamanna, altro pentito, riferisce che l’infedeltà di Porco e Frassanito rispetto ai loro compiti di servizio, era un fatto notorio e che di loro si servivano spesso i detenuti membri delle consorterie criminali.
L'ambasciata per bruciare l'auto del collega
Giovanni Porco poi, secondo il racconto reso sempre da Adolfo Foggetti, fu anche tra gli artefici dell'intimidazione ai danni di un assistente capo di polizia penitenziaria. Attilio Chianello e Gennarino Presta, entrambi appartenenti alla cosca Rango/Zingari, volevano dargli una lezione perché l'agente aveva assegnato ai lavori della cucina anche a detenuti di origine straniera. Tramite Giovanni Porco inviarono il messaggio ai loro sodali all'esterno, che incendiarono l'autovettura del malcapitato, una Ford Fiesta.
Gli affari trattati alla finestra a scacchi
Secondo quanto riferisce invece il pentito Vincenzo De Rose, il boss Pasquale Bruni favorì l’agente Giovanni Porco per l’acquisto di un veicolo usato da destinare alla figlia neopatentata, consentendogli di acquisire per soli 500 euro, la proprietà di una Daewoo Matiz destinata alla rottamazione, con la complicità di un’agenzia di pratiche auto gestita da un elemento vicino alla famiglia Di Puppo. Luca Pellicori, altro collaboratore di giustizia, non ha dubbi poi nel descrivere la disponibilità di Luigi Frassanito: «Se glielo avessi chiesto, mi avrebbe portato una pistola in carcere» si legge in uno dei verbali. Franco Bruzzese poi racconta dell’importanza della collocazione delle celle. Francesco Patitucci, dalla sua finestra al primo piano, poteva parlare con l’esterno. «Una volta – dice il collaboratore di giustizia – si è anche sistemato una situazione di soldi in relazione ad un soggetto di Corigliano o Rossano, un imprenditore che si è fatto portare davanti al carcere, sotto la finestra, dalla convivente di Patitucci, Rosanna. Patitucci – racconta Bruzzese – disse a questo imprenditore di restituire le somme in prestito che gli aveva dato, ad usura, perché gli servivano. Si trattava di una somma di 100 mila – 120 mila euro».
Le prodezze di penna bianca
Il terzo soggetto coinvolto, F.C., è conosciuto da tutti con il soprannome di penna bianca. Tra il mese di agosto del 1996 fu sospeso dal servizio perché posto agli arresti domiciliari con l’accusa di corruzione aggravata e favoreggiamento. Venne reintegrato nel marzo del 1997 a seguito della revoca della misura cautelare da parte del tribunale del riesame. Poi per quella vicenda, in cui risultarono coinvolti anche due elementi della cosca Chirillo, l’uomo fu assolto in via definitiva nel 2000. I collaboratori di giustizia lo individuano come agente penitenziario infedele, impegnato sia nel ruolo di postino per garantire le comunicazioni con l’esterno, sia in quello di distributore di sostanze stupefacenti e di bevande alcoliche. Secondo quanto dichiara il pentito Luciano Impieri, provvedeva anche ad aprire le celle per consentire ai detenuti di stare insieme senza alcuna autorizzazione.
LEGGI ANCHE:
Arresto agenti a Cosenza, Gratteri: «Il carcere nelle mani della ‘ndrangheta»
Agenti del carcere di Cosenza a disposizione delle cosche, arrestati
Erano a disposizione delle cosche, in manette due agenti del carcere di Cosenza