Durante l'indagine che che tra il 2009 e il 2010 ha dato un duro colpo alla 'ndrangheta e ha portato a centinaia di arresti, Nicola Gratteri, allora aggiunto a Reggio Calabria, si «vantava continuamente» e creava tensione tra gli altri magistrati del pool. È il duro giudizio che Ilda Boccassini dà dell'attuale procuratore di Catanzaro nella sua autobiografia 'La stanza numero 30. Cronache di una vita'.

L'indagine, chiamata 'Crimine infinito', ha svelato l'unitarietà della 'ndrangheta e la sostanziale autonomia delle sue articolazioni territoriali in «un modernissimo - scrive l'ex procuratore aggiunto di Milano - e complesso equilibrio tra il centralismo di regole e rituali e il decentramento delle ordinarie attività illecite».

«Capii molto presto, una volta presa in mano l'indagine, che sarebbe stato utile coinvolgere la procura di Reggio Calabria, allora guidata da Giuseppe Pignatone, per impostare una strategia comune» scrive Boccassini sottolineando che da quel momento «le riunioni si susseguirono con cadenza regolare, ci dividevamo i compiti, gli obiettivi, i soggetti sui cui indagare e cominciammo a scambiarci carte, contenuti delle intercettazioni».

C'era però una «nota stonata» che «creava un po' di imbarazzo»: l'atteggiamento di Nicola Gratteri. «Creava tensione con il suo continuo vantarsi di una conoscenza del fenomeno ndrangheta talmente approfondita e a suo dire unica da ricavarne bizzarramente (poiché era il solo a esserne convinto) un senso di superiorità nei nostri confronti. Un comportamento - sottolinea Boccassini - che non ci ha mai permesso di legare, dato che a stento ci salutava, ma soprattutto perché ogni giorno di più si rivelava culturalmente e professionalmente molto diverso dalla squadra. A detta di chi lo conosce a fondo, per Gratteri far parte di un pool senza esserne il leader non ha alcun significato».