L’interrogatorio di Maurizio De Carlo agli atti dell’inchiesta Ducale. Il collaboratore di giustizia voleva trasferire i propri affari a Milano e conoscere due pezzi grossi di Fratelli d’Italia usando il presunto rapporto con il consigliere regionale. Che, per il gip, non si è mai messo a disposizione della cosca di Sambatello
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L’accordo con Giuseppe Neri era «che mi facevano lavorare, perché io mi volevo spostare fuori, a Milano». Maurizio De Carlo, collaboratore di giustizia, risponde alle domande dell’allora pm, oggi procuratore aggiunto, della Dda di Reggio Calabria Stefano Musolino. Prima di pentirsi, De Carlo era diventato il terminale degli «interessi imprenditoriali della cosca De Stefano nel settore dell’edilizia». In un verbale finito agli atti dell’inchiesta Ducale, racconta «di aver incontrato Neri durante la campagna elettorale per le elezioni regionali del 2020». Il tramite sarebbe stato un comune amico, di professione vigile del fuoco.
De Carlo si sarebbe «accordato con il predetto candidato per la raccolta dei voti in suo favore» e avrebbe «coinvolto suo cognato, Gino Molinetti, per soddisfare le richieste di Neri di recuperare voti in una zona compresa tra Calanna e Sambatello, dove quest’ultimo riteneva di essere scoperto». Il tutto, specificano i magistrati antimafia, «con la piena consapevolezza da parte di Neri della caratura criminale di De Carlo». Neri è il consigliere regionale di Fratelli d’Italia indagato per scambio elettorale politico-mafioso in relazione alle elezioni regionali del 2020 e 2021 e quelle comunali del 2020. La Dda di Reggio Calabria ha presentato appello al Tribunale della libertà contro la decisione del gip che, nell’inchiesta Ducale, non aveva emesso la misura cautelare nei confronti del politico e del consigliere comunale del Pd Giuseppe Sera. Nel mirino i rapporti di Neri con Daniel Barillà, politico (prima finito ai domiciliari e poi all’obbligo di firma) che i pm antimafia ritengono legato al clan Araniti di Sambatello.
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Il verbale di De Carlo allarga il contesto delle indagini sulla politica a Reggio Calabria a partire dalle aspirazioni imprenditoriali del collaboratore e dal proprio presunto rapporto con Neri. È parte di una corposa mole di materiale che comprende anche un’informativa di oltre 2800 pagine.
De Carlo puntava a incontrare due pezzi grossi di Fdi
Il piano del pentito era quello di portare i propri affari a Milano. Prospettiva della quale non avrebbe «parlato completamente» con Neri. L’obiettivo era quello di incontrare, tramite i buoni uffici del consigliere regionale calabrese, due esponenti di Fratelli d’Italia. Uno era «una persona di fiducia del partito», l’altra un parlamentare con un ruolo importante tra i meloniani. Tra i due (che non sono indagati) e Neri c’è una differenza non da poco: quest’ultimo, secondo De Carlo, avrebbe saputo bene con chi aveva a che fare. «Neri – dice il pentito ai magistrati – sapeva chi ero e tutto». Riguardo agli altri politici, spiega De Carlo, «non penso che gli avrebbero detto chi ero e chi non ero». Un tentativo di accreditarsi attraverso il presunto rapporto con il politico reggino. Il collaboratore rende l’idea in maniera ancora più esplicita quando chiarisce che «non lo volevo nemmeno incontrare, giustamente, perché io pensavo: “Questo si incontra con me, in un periodo che la politica non porta bene, gli fanno una foto magari, domani gli creerò qualche problema”».
De Carlo dice di aver «promesso dei voti» al politico, anzi, di averglieli garantiti «perché avevo parlato con mio cognato, con Gino (Molinetti, ndr)». Quel patto, riassume il magistrato antimafia Stefano Musolino sarebbe legato alla promessa, da parte del consigliere regionale di far avere dei lavori all’impresa del pentito una volta che avesse trasferito le proprie attività in Lombardia.
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Il pentito e la politica: «I voti dovevo dividerli»
La promessa sarebbe stata quella di portare a Neri «un bel po’ di voti. Almeno una cinquantina di voti glieli portavo perché di più non mi potevo esporre… dovevo dividerli questi voti». E a questo punto, nel verbale che risale al 6 novembre 2020, compare un corposo omissis che potrebbe turbare i sonni di più di un politico a Reggio Calabria.
De Carlo dice di aver garantito quei 50 voti e che Neri gli avrebbe addirittura detto «pure di meno». «Gli ho detto io – continua il pentito – “No, questi qua riusciamo a concretizzarli fra amici, parenti”… e poi avevo parlato pure con mio cognato in una zona che per lui era scoperta che è… non mi ricordo la zona se era fra… sopra Sambatello, sotto Calanna, comunque che lui era completamente scoperto Neri, gli ho detto qual era la zona e lui mi ha detto che era scoperto». Il collaboratore di giustizia chiarisce anche che non parlò del coinvolgimento del boss Molinetti con Neri.
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I pm, per riscontrare le dichiarazioni di De Carlo, hanno identificato l’amico in comune che avrebbe procacciato voti per Neri e organizzato l’incontro tra l’imprenditore-pentito e il politico. Le intercettazioni riversate nell’inchiesta Ducale, in effetti, evidenziano una serie di contatti tra Neri e il vigile del fuoco, che non è indagato: 20 in totale tra telefonate e sms. In effetti, i due discutono di consensi elettorali. Il 29 gennaio 2020, l’amico fa gli auguri a Neri e gli chiede «come sei orientato», se sull’«assessorato» oppure «sulla presidenza» anche se il neoeletto consigliere si affretta «a spiegare che era ancora prematuro esprimere una valutazione».
Il gip su Neri: «Non emergono rapporti con la cosca»
Fin qui le dichiarazioni, tutte da riscontrare, del collaboratore di giustizia. Materiale che sarà riproposto dalla Dda ai giudici del Tdl di Reggio Calabria per dare sostanze alla richiesta di rivedere la decisione del gip e il No alla misura cautelare.
L’accusa ruota attorno al rapporto tra il consigliere regionale di Fratelli d’Italia e Daniel Barillà, portatore di voti (sia a destra che a sinistra) e genero del boss Domenico Araniti. Il giudice per le indagini preliminari ritiene non dimostrato che Barillà «sia l’intermediario» tra il clan Araniti «e il mondo politico e istituzionale». «Non è dimostrato – si legge nell’ordinanza – che la sua attività politica sia eterodiretta dalla famiglia di ’ndrangheta e in particolare da Domenico Araniti» e «non è provato che la cosca faccia politica per il tramite del Barillà per infiltrare i propri uomini nelle istituzioni per poi asservirle alle sue esigenze/interessi». In sostanza, Barillà sarebbe «certamente supportato dal boss di Sambatello e da altri seppur limitati componenti della famiglia di mafia nella sua attività politica ed elettorale, ma non si può sostenere che agisca su mandato del suocero e per gli interessi della famiglia di mafia».
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Il magistrato sottolinea che «i politici che entrano in rapporti per motivi elettorali con Barillà (…) sanno benissimo che questi si avvalga anche dell’aiuto del suocero, del boss di Sambatello, capace di influenzare il territorio ance dal punto di vista elettorale». Barillà, però, non può essere considerato «un rappresentante della cosca nel mondo politico»: ne consegue anche «come non sia possibile affermare che i politici che con Barillà stringono alleanze elettorali, sanno di allacciare rapporti direttamente con l’organizzazione e quindi con il boss di Sambatello». C’è un pezzo dell’attività di Barillà «che si muove con modalità lecite di acquisizione dei consensi e in ogni caso nulla porta a ritenere che il mondo politico sappia che dietro l’attività politica di Barillà si celino non gli interessi personali dello stesso Barillà ma quelli riconducibili alla associazione, cosca, famiglia di ’ndrangheta. Su tale aspetto – sottolinea il gip – il quadro indiziario è insufficiente e anzi contraddittorio».
L’unica consapevolezza che «emerge chiara» è quella che il mondo politico fosse a conoscenza del fatto che Barillà «fruisca dell’appoggio del suocero, boss di Sambatello, della “copertura”, a voler utilizzare la terminologia emersa dalle conversazioni».
Alla luce di questi elementi – cioè del fatto che non si può ritenere provato che Barillà si muovesse in politica per conto del clan di Sambatello – per il gip che ha valutato la posizione di Neri è da escludere che i politici «abbiano potuto impegnarsi a porsi a disposizione, in chiave strutturale, delle esigenze e degli interessi di cui è portatrice la cosca di ’ndrangheta» degli Araniti. Di più: «Sono le stesse risultanze investigative che in nessun caso fanno emergere l’impegno a porsi a disposizione della cosca, in particolare le conversazioni captate prima delle competizioni elettorali, attenzionate, ma che anche quelle successive che possono rilevare un chiave indiretta un tale impegno». Non ci sarebbero, in sostanza, «interessamenti né da parte di Barillà né da parte dei politici che con lo stesso hanno fatto alleanze in relazione alla struttura di ’ndrangheta». L’inchiesta ha puntato i fari sul periodo «che va dalla fase precedente alle elezioni regionali 2020 a quello successivo alle regionali 2021, ma nessuna risultanza lascia ravvisare interessamenti per la cosca di mafia».